Croce e il suo mondo (1967)

di Giovanni Spadolini – «Il Resto del Carlino», 18 gennaio 1967

Giugno 1920. Giolitti, settantottenne, è incaricato di formare il governo, quello che sarà il quinto e ultimo governo del grande statista volto a salvare il salvabile dello Stato liberale, volto a riparare le devastazioni della guerra e del dopoguerra, le une più gravi delle altre. Corre, nei giornali, il nome di Benedetto Croce per il ministero dell’Istruzione. Qualcuno ne parla, a Napoli, con don Benedetto; il filosofo, che è sempre stato estraneo alla lotta politica, che al massimo ha accettato di partecipare quale candidato alle elezioni amministrative della sua città d’elezione nel luglio del 1914, esclude l’ipotesi, sorride, con una smorfia che è insieme di ironia e di timore, alla sola prospettiva di dover lasciare i suoi studi, la sua biblioteca, il suo angolo di Trinità Maggiore da dove contempla le ombre e i fantasmi di un mondo che nessuno ama e possiede come lui.

Croce e Giolitti non si conoscono, non hanno avuto mai occasione di incontrarsi nei vent’anni che pur saranno consegnati alla storia coi loro nomi. Per di più il fondatore della «Critica» non ha condiviso del tutto, almeno nel primo decennio del secolo nuovo, le inclinazioni e gli orientamenti del «trasformismo» giolittiano, del suo empirismo duttile e pragmatico così lontano dalle grandi impostazioni ideali di un De Sanctis o di uno Spaventa, così alieno dai filoni classici del liberalismo meridionale nel cui grembo è cresciuto. Nei «Ricordi» del secondo dopoguerra, il grande maestro aggiungerà anzi che l’unico statista liberale «verso cui a me, che stavo fuori della lotta politica, era accaduto di pronunziare un accenno di biasimo» era stato precisamente Giolitti, a proposito delle agitazioni popolari di Torino nel 1917: agitazioni in cui Croce, su un’errata informazione di un collega senatore napoletano, aveva visto la mano dell’esule di Dronero, ancora legato alle pregiudiziali del neutralismo e ai risentimenti del maggio cosiddetto «radioso».

Eppure la voce dell’incarico di governo era vera. Olindo Malagodi fu il tramite dell’invito di Giolitti che turbò la quiete di casa Croce, che mise subito in luce il ruolo decisivo della cara signora Adele («se questo è il dovere cui sei chiamato, devi accettarlo»: fu la voce della compagna fedele). Croce partì da Napoli in tal fretta che poté portare con sé un solo abito da pomeriggio, lo stesso che gli servirà nella tarda serata per il giuramento dei nuovi ministri al Quirinale (presso il Re che, gli aveva confidato il presidente del Consiglio, non teneva affatto ai rigori dell’etichetta).

Di fronte alle riluttanze e alle perplessità del filosofo, che non si sentiva e non si sentì mai tagliato per la politica, Giolitti ricorse ad un argomento che per un patriota di devota fede risorgimentale qual era Croce doveva esercitare un peso determinante: «… Le chiedo un sacrificio distogliendola dai suoi studi… Ma l’Italia è in tale travaglio che tutti dovremo sforzarci (e non so se ci riusciremo) a salvarla».

In realtà né Croce né Giolitti riusciranno a salvare l’Italia liberale, corrosa e disintegrata da una crisi interiore di uomini e di istituti che l’uno e l’altro avevano lucidamente previsto nel momento stesso in cui si erano opposti allo scatenamento dei miti dell’interventismo e alla violenza della piazza tumultuante dietro la guida dell’irrazionalismo dannunziano. Ma il rapporto che si instaurò fra i due, in quel primo e purtroppo incompiuto esperimento di governo, fu di tale cordialità e simpatia da creare un cemento ideale capace di sopravvivere a tutte le drammatiche prove degli anni di poi, capace di prolungarsi dall’azione politica nell’intimità dei cuori e nel fervore di un’amicizia mai tradita. Quel rapporto si riflesse nelle pagine commosse e poeticamente evocatrici della «Storia d’Italia dal 1871 al 1915» – il più alto elogio del giolittismo che lo stesso Giolitti potesse attendersi (al punto che, quasi alle soglie della morte, il vegliardo statista confiderà alla figlia di aver capito molto meglio l’opera propria nell’interpretazione di Croce che non nel momento stesso in cui l’aveva realizzata).

Fu un sodalizio impareggiabile. Giolitti cominciò presto ad ammirare in Croce il senso dei problemi concreti, la capacità di adattarsi alle esigenze più minute, l’odio della retorica. E quando il vecchio ed espertissimo presidente del Consiglio vide questo nuovo ministro, del tutto ignaro della pratica di governo, chinarsi con diligenza e serietà sui temi impopolari dell’esame di stato o dell’insegnamento religioso, e quando lo vide affrontare con calma e serenità le incompetenti od ostili commissioni parlamentari, e quando lo vide opporsi con misurata energia alle sconsiderate agitazioni del personale impiegatizio, o promuovere economie nell’ambito del suo dicastero, o tagliare i fondi per inutili feste celebrative, o quando lo sentì addirittura correggere disegni di legge proposti da altri colleghi che non li avevano neppure letti, lo statista finì per esclamare, con una nota di sollievo e di consolante smentita agli scetticismi della vigilia: «ma questo filosofo ha molto buon senso». Uno dei pochi elogi, confesserà Croce molti anni più tardi, di cui egli si dirà compiaciuto, che abbia conservato quasi come un blasone di nobiltà nel segreto del cuore.

Fedeltà mai smentita: abbiamo detto. Fedeltà che si opporrà alle profferte e alle lusinghe del fascismo, nella fase corruttrice del «collaborazionismo» col mondo liberale. Allorché Mussolini tenterà di risalire la china del delitto Matteotti e farà giungere a Croce, già guarito da quasi tutte le iniziali illusioni sull’esperienza fascista, l’invito a ritornare al dicastero della Pubblica Istruzione, il futuro promotore del manifesto degli intellettuali antifascisti non gli risponderà soltanto con un «no» categorico ed assoluto ma gli farà sapere che «solo con Giolitti» sarebbe tornato al governo, che «solo a Giolitti» non avrebbe detto di no.

Solo con Giolitti. Il liberalismo di Croce trovò nel giolittismo la sua concreta misura di azione politica, un criterio di riferimento infallibile: nel «no» a tutte le amplificazioni retoriche, nel comune culto dei valori di probità e di operosità individuale, nella medesima inflessibile severità con se stessi e col proprio lavoro, concepito con una punta di religiosa dedizione.

«Benedetto Croce e il suo mondo». Sì: una stagione chiusa della vita italiana, un mondo irripetibile e ormai quasi sfuggente alla nostra memoria. Una società fondata su convenzioni che non erano soltanto convenzioni, disciplinata da regole che affondavano le loro radici in un «ethos», in una concezione coerente della vita. Non senza rigori, intransigenze, puntigli. Di protocollo e non di protocollo soltanto.

Di quel «mondo», di quello straordinario «mondo» crociano e giolittiano, ha voluto offrirci un’immagine visiva, diretta, senza intermediari un «crociano» fedele e appassionato quale Italo De Feo, doppiamente «crociano» per fedeltà alla terra nativa e alla disciplina degli studi umanistici. E lo ha fatto con un libro, con un bellissimo libro splendidamente illustrato gemello dell’Italia di Giolitti e che s’intitola appunto Benedetto Croce e il suo mondo (edizione Eri). Una biografia di Croce con le parole stesse del maestro, un «viaggio» ricostruito anno per anno attraverso le testimonianze del protagonista ma soprattutto attraverso le testimonianze iconografiche del tempo, i volti degli amici che conobbe, i frontespizi dei primi libri che lesse o che pubblicò, i luoghi cari all’infanzia scontenta o all’appagata maturità, le immagini della partecipazione alla vita pubblica o politica.

Centinaia di rare e rivelatrici illustrazioni: legate da un testo illuminante e discorsivo, coordinate da un’interpretazione che è rispetto del personaggio ed insieme «pietas loti». Sullo sfondo del lavoro di De Feo, un modello, un modello mai dimenticato: l’Albo carducciano di Fumagalli e Salveraglio, del lontano 1909, per i tipi zanichelliani. Ricordate? «Albo carducciano», ossia «iconografia della vita e delle opere di Giosue Carducci; 417 zincotipie e 1 fotoincisione». Un libro caro all’«Italia dei nostri nonni» (così De Feo chiamò un altro suo bel volume, di pochi anni or sono); un libro caro a tutta una generazione e compendio di tutta una mentalità.

Il nostro amico, che serba una profonda fedeltà al mondo crociano e carducciano e non esita a confessarla (di questi tempi!), è certamente partito da quell’intuizione ispiratrice, l’ha arricchita con l’esperienza del bel documentario televisivo che alla vita di Croce egli stesso dedicò nell’anno crociano, l’ha innestata sulla diligente e scrupolosa ricerca di tutte le frasi anche private di una parabola umana esemplare, fuori da ogni atteggiamento statutario o da ogni infatuazione celebrativa. E l’opera di De Feo ne è risultata un’opera viva: là dove l’insegnamento di Croce si identifica precisamente in quei valori di probità, di severità, di onestà con se stessi che ispirarono al maestro le indimenticabili parole del «Soliloquio» riprodotto anche dal nostro giornale, proprio quando fu scritto, alla vigilia della morte, nel 1952, degno e insuperabile commento a tutta un’esistenza. «La vita intera – ricordate? – è preparazione alla morte, e non c’è da fare altro sino alla fine che continuarla, attendendo con zelo e devozione a tutti i doveri che ci spettano».

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