Il problema delle «origini» del melodramma: La Camerata dei Bardi

di Luigi Ronga – In “Lezioni di storia della musica”, Tomo I, Accademia Nazionale dei Lincei, Roma 1991, pp. 463-479.

Nella storia del teatro italiano, c’è un momento di aulica solennità che si compendia nella formula fortunata: origini del melodramma. Punto d’incrocio di tendenze spirituali diverse, armonizzate in un’unità più o meno artificiosa: luogo di convegno, per dir così, di storici della letteratura, del teatro, della musica. Già l’enunciazione del «problema» è di per sé significativa e proprio sta, alla soglia dei tempi moderni, in ideale analogia con quella dei tempi antichi: nascita della tragedia. Problema d’una storiografia a sfondo intellettualistico che, per gran parte almeno, accetta e subisce l’astrattezza ch’è alla radice dei primi ragionamenti seicenteschi, e via via rinvigorito non per forza di nuovo pensiero, bensì di antica tradizione; non è quindi un violento desiderio di novità che qui si vuol attizzare, ma preparare una utile analisi delle cause per cui, se revisione ha da esserci, risulti chiaro se e come la critica moderna tenda a seguire altre vie, non più nuove, ma più sue, nel metodo e negli scopi.

Poiché è noto che dall’atmosfera della famosa accademia fiorentina non si libera un’impressione di adolescenza sana e forte, di giovanile disordine, ma d’una senile freddezza, d’una stanca maturazione di ideali e di pensieri a tepori artificiali, da gran tempo si è insidiato il dubbio sul valore effettivo delle opere e delle azioni esercitate da quei vari personaggi, che ormai siamo usi a vedere un po’ impietriti nei loro atteggiamenti convenzionali. Da quando gli aspetti più diversi e contradditori del melodramma sono stati raccolti nel simbolo unitario di una creatura fiorente per secoli, rimase sempre un po’ ambiguo il riportare tanta felice e fortunata vitalità alle affaticate speculazioni della Camerata Bardi; la quale finì per sembrare come una serra in cui, facendo trepidamente ventilare artificiose aure umanistiche, riuscì finalmente a sbocciare un pallido fiore, dal singolare destino. Un po’ avvizzito all’inizio, via via questo fiore si colorì, si rinfrancò e maturò semi dai quali nacquero frutti carnosi. Il fatto è che all’accademia fiorentina furono rivolte ironiche contestazioni, e poi a dirittura biasimi, che per reazione suscitarono cavalleresche difese: e la contesa è tuttora aperta. L’accordo ritorna quando un genio spazza via ogni tormentato dubbio, ogni dissidente interpretazione: l’Euforione della Camerata si trasforma, appunto, in creatura vitale al magico tocco monteverdiano. Dopo l’Orfeo gli animi ritornano più tranquilli e la storia del melodramma si concreta nelle singole figure dei creatori; e come se il «problema» fosse ormai placato in alcune prime soddisfacenti soluzioni, ci si dimentica delle perplessità passate per affidarsi al chiaro suono della nuova musica.

Il problema, come fu posto, ha avuto una sua funzione storica, che oggi sembra esaurita. Infatti, in un periodo di ricerca, che ora si può considerare concluso è prevalsa la documentazione obbiettiva delle «origini» melodrammatiche, secondo il metodo storico del secolo scorso. Una diligente e intelligente coordinazione del materiale che, sino ad oggi del resto, è rimasto la base fondamentale delle nostre conoscenze: dovute principalmente al Solerti e al Rolland, benemeriti per le loro notissime opere. Il primo, storico letterario, pose chiaramente i limiti al suo lavoro, evitando giudizi musicali, il secondo investì complessivamente il problema nei suoi aspetti drammatico-musicali. Entrambi rimangono le fonti più ricche d’informazione; per qualche tempo si è persino creduto che, mercé loro, il disegno generale poco avesse a mutare dalle linee chiaramente scolpite, e, tutt’al più, rimanesse da colorire o illuminar meglio qualche particolare. Eppure è facile scorgere, quando si ritorni a trattare l’argomento, espliciti gesti d’insofferenza, proprio come se qualcosa di stanco e viziato aduggiasse lo studio d’un momento storico così illustre. Se la storia fosse soltanto una diligente, obiettiva e, per quanto possibile, compiuta raccolta di documenti riferentisi ad un determinato avvenimento, nel caso nostro potremmo considerare ben dissodato il terreno su cui sorse l’opera diretta della Camerata Bardi. I fatti sono stati messi in rapporto fra loro, sulla base di documenti sicuri; i testi teorici e pratici sono stati studiati e sono forse i più noti della letteratura storica del teatro musicale e, cosa rara, persino in gran parte pubblicati. Ma la interpretazione è ben altra cosa: lo stesso materiale può generare significati diversi o approfonditi per chi sappia interrogarne e scrutarne l’immota, e talvolta pietrificata fisionomia. E il «problema» continua ad esser vivo, se con certa regolare periodicità, compaiono studi e saggi sull’argomento; segno indubbio di un interesse persistente che va oltre il circolo degli studiosi specialisti. Facciamo il punto e consideriamo i nuovi atteggiamenti in cui fra azioni e reazioni, fra smarrimenti e ritrovamenti, cerca di affermarsi un nuovo spirito critico.

Gli storici della letteratura non intendono assumere in proposito speciali responsabilità: o con fastidio o con indifferenza passano oltre e, se fermato, ci sarebbe chi, indaffaratissimo, fa capire che non è luogo per lui di perder tempo, che ben altri problemi lo attraggono. Musica, arte fatua e femminile, che nell’aria dilegua come vano fantasma sonoro, non è occupazione di persone serie. Ancora c’è chi, facendosi schermo della propria sordità, gentilmente rifiuta l’invito: ammetterà interessantissima la cosa, non solo dal punto di vista musicale, ma anche più largamente teatrale; ma nel primo caso, come impicciarsi di monodia, basso continuo e contrappunto? Nel secondo, problemi di tecnica scenico-teatrale, magari di scenografia, esigono chiuse competenze di specialisti.

Tuttavia, almeno uno fra gli storici della letteratura, il Belloni, esamina attentamente lo svolgimento letterario del melodramma nel sec. XVII e non dimentica qualche cenno sul problema delle origini, soffermandosi specialmente sul fatto nuovo che determina il sorgere della nuova forma poetica e musicale; esso non è l’unione della poesia con la musica che si ritrova già in tempi remoti, ma bensì «il particolare rapporto in cui musica e poesia vennero a trovarsi in que’ componimenti poetici e musicali che furono il vero germe del melodramma». E precisando, così prosegue: «un triplice rapporto corre tra la musica e l’azione nella forma tipica del melodramma. La parola ha in sé, nella sua struttura, un elemento musicale reso sensibile dagli accenti, dalle inflessioni, dalle cadenze della voce, dall’aggruppamento delle consonanti, dal ricorrere più o men frequente degli iati, da tutti insomma i fattori fonetici della lingua. Dando il massimo sviluppo a codesto elemento insito nella parola, si ha la declamazione cantata, cioè quello stile recitativo, per virtù del quale l’azione scenica musicata diventò melodramma. Questo però non avrebbe raggiunto la sua specifica individualità se la musica non fosse temprata all’interpretazione e all’espressione dei moti più reconditi dell’anima e non si fosse addestrata a colorire, a descrivere, a imitare i fatti della vita esteriore; perché solo allora il dramma lirico ebbe l’essere suo, quando musica e poesia s’identificarono nell’unità dell’arte mediante la declamazione cantata, l’espressione del sentimento, la descrizione dei fatti esteriori»[1].

È evidente, da questo passo, che il Belloni offre una spiegazione estetica del rapporto fra musica e poesia tutta intessuta dagli elementi tradizionali che il pensiero critico contemporaneo vien faticosamente, ma sempre più chiaramente superando. L’equivoco può essere utilmente dissipato se si accoglie l’unità, anzi la sintesi a priori degli elementi che empiricamente sono distinti nella espressione artistica. «Che per ricondurre la musica al compito di linguaggio e di espressione l’occorresse il complemento della parola si poteva e si può tuttora credere soltanto in base al convincimento che la musica e la poesia svolgono ciascuna in un campo di possibilità diverse, e che, insomma, oltre a costituire due ordini di mezzi fisici dell’espressione (che è facile a concedersi), esse siano in sostanza due diverse forme d’arte»[2].

Di qui, l’eterna fatica d’integrare la musica nella poesia e la poesia nella musica, in un’illusoria addizione di linguaggi alieni l’un dall’altro per la loro opposta natura.

Ben altra partecipazione ci dovremmo attendere dagli storici del teatro, dei quali potrebbe sembrare strana la generale riserva a cui quasi tutti inclinano; in fondo, essi restan paghi di segnalare gli stretti legami che l’opera musicale, in quanto risultato di ideali e di aspirazioni diverse, presenta col teatro cinquecentesco in genere, con la favola pastorale e gli intermedi in particolare. Ma sono ravvicinamenti esteriori, che non mettono in relazione o in contrasto nemmeno gli aspetti tecnici che possono aver agito fortemente su quella che poi risulterà essere la concezione scenico-teatrale degli accademici fiorentini. Questo forse è il campo dove maggiormente è languito il desiderio di nuova ricerca. Tante volte si è detto e ripetuto dell’importanza della formazione umanistica; tanto l’imitazione del teatro degli antichi è il pensiero dominante del tempo che tutta l’atmosfera ne è impregnata e circola come un veleno sottile il desiderio di rievocare sulle scene la potente vitalità umana della finzione teatrale classica. Dalle prefazioni degli editori, e dei musicisti stessi, attraverso le testimonianze dei contemporanei, sino ai ponderosi trattati del gran teorico del «recitar cantando» G. B. Doni, infinite sono le testimonianze del vitale interesse innestatesi su molteplici elementi di tradizioni, di cultura e di tecnica teatrale che è compito proprio degli storici del teatro di lumeggiare per scoprire la fonte di tante suggestioni che da nuovo stile rappresentativo sono derivate ai librettisti ed ai compositori. Mancano, in proposito, studi particolari, cosicché resta giustificata la tendenza a trarsi indietro e a conceder troppo presto alla musica, e cioè al mezzo espressivo nuovamente atteggiato, il potere risolutivo di plasmare in creazione unitaria quello che è ancora scisso e indipendente elemento di cultura.

Non resta quindi che rifarsi alle opere complessive sul teatro; ma è naturale che, ad esempio, Luigi Tonelli, al quale dobbiamo la prima efficace e pregevole sintesi della storia del teatro italiano[3] sia indotto a sorvolare sul periodo complesso delle origini e ad appoggiarsi in prevalenza sulle conclusioni più accettabili degli storici musicali. Il capitolo dedicato all’opera musicale contiene le pagine migliori sinora scritte sui libretti musicali, i quali sono analizzati con la specifica competenza dell’autore; il Tonelli peraltro si mostra assai prudente nell’accogliere il tentativo di radicale revisione, sull’importanza della Camerata fiorentina, formulato dall’Alaleona[4].

Degli storici del teatro, il Gregor è quello che meno mette in rilievo il progressivo affermarsi dell’opera nei suoi supposti stati; anzi di essa tratta come in una sintesi finale ch’egli riassume nella conseguita realtà di uno spettacolo unitario, di una visione ormai valida per sé stessa. Il Gregor, si sa, tratta con grande originalità il manifestarsi, per dir così, fenomenico dello spirito teatrale nelle esperienze storiche più diverse; ed anche nel nostro caso rapidamente riduce l’assenza dell’opera ad una stretta analogia con teatro gesuitico medio-europeo sei-settecentesco. La parentesi fra le due forme è assai stretta per ragioni di spettacolo, a parte il fatto che nell’opera la musica sostituisce lo scopo religioso, «beide Arten des Theaters wünschen die Unterstellung unter eine übergeordnete, leitende Idee»[5]. Qui fa capolino, in questa idea conduttrice, alla quale vien sottomesso ogni altro fattore, un’interpretazione che vorrei dire, se la parola non sembrasse troppo grossa, metafisica; cosa che mi par confermata poco oltre, quando il Gregor fa intervenire un’ambigua volontà dettata dall’esterno nel ribadire che: «In der Oper unterwirft sich das Theater viel vollständiger einem von aussen diktierten Wille».

Ove par chiaro che il «teatro» è il simbolo di un’unità assoluta non altrimenti identificabile che in una trascendente trasfigurazione di un rito-spettacolo.

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Rimasti dunque gli storici della letteratura e del teatro, salvo il Gregor, nelle posizioni tradizionali, è naturale che agli storici della musica sia toccato di approfondire l’indagine con un maggiore impegno. Primo punto fondamentale, la valutazione della Camerata fiorentina: problema delicato e controverso da quando si cominciò a riconoscere la coerenza intellettualistica della vagheggiata riforma con la realizzazione immediata di uno stile concreto, personale e umano, da quella derivato unicamente per virtù teorica. La prima negazione, è noto, fu dell’Alaleona, ed ebbe origine dalla contrapposizione di un diverso spirito formato nella libera aria respirata dal popolo di contro all’atmosfera viziata delle corti e dei signori: è uno schema di opposizione ormai divenuto classico, ma anche consunto dall’improprio uso fattone. Non su questa linea si trovano le opposizioni recenti, poiché esse sorgono piuttosto dall’iniziato approfondimento dell’arte cinquecentesca, anche se, sia detto qui per incidenza, siamo ben lungi dall’aver messo in luce le tendenze, gli stili, le personalità di questo secolo enigmatico. Il Palestrina stesso, ad esempio, è visto in una chiarezza di monolite, senza sfondo di paesaggio, senza sicurezza di rapporto fra predecessori e contemporanei, fra eguali e minori, lo stesso si dica di altri artisti anche più direttamente coinvolti nella formazione di una nuova sensibilità, come i veneti e i madrigalisti. Chi ha studiato le correnti stilistiche del sec. XVI e le sue figure più insigni, dinanzi ad una ricchezza musicale che ancor oggi, appunto per la sua inesauribile varietà non è stata appiano valutata, nel confronto con la grama esilità di certe prime musiche fiorentine del nuovo stile indotto ad anticipare conclusioni severe, restrittive.

Cosicché il merito fu portato su tutt’altro piano della storia dell’arte, come quando viene concesso all’accademia fiorentina di aver affrettato la coscienza della crisi con l’enunciazione di più affilate tesi teoriche, con un’analogia di rapporti quale fu notata per l’impulso letterario di Federico Schlegel ed il Romanticismo tedesco[6].

Ad ogni modo, attraverso una prima sicura distinzione, non criticamente sfruttata sinora, si giunge a rifiutare uno degli elementi tradizionali accettati senza discussione: la Camerata vista nella luce uniforme di un’unità assoluta, mito creato come simbolo di una attività demiurgica nella creazione dell’opera. Giustamente, invece, Robert Haas distingue due momenti nell’attività della Camerata che corrispondono a due tendenze espressive diverse[7]; il primo periodo è quello del conte Bardi, in cui primeggiano come musicisti Vincenzo Galilei e Giulio Caccini, mentre il secondo periodo, dal 1592 in poi, è quello di Jacopo Corsi, nel quale il Peri prevale nettamente e con lui l’ideale vagheggiato dello stile recitativo. Accettate e accuratamente filtrate le conclusioni dello Haas gli autori di una recente storia della musica[8] con attenta analisi cercano di distinguere meglio i singoli contributi, frutto di personali esperienze. Lavoro utile, ma delicato, in tanta fragile contrapposizione di larve di artisti dai contorni appena delineati. Troppe musiche ci mancano, di questo periodo sperimentale, per fissare con limiti netti le singole caratteristiche dei compositori, accomunati tutti nel prevalere di un gusto, entro il quale non bisogna insistere troppo nell’isolare elementi contrastanti, non riducibili ad una poetica di unico significato. Ma questa discriminazione è indizio non fallace di concretezza storica, ed è peccato che in entrambe le opere la narrazione muova dalle soglie del Seicento; e perciò gran parte dei fermenti del secolo precedente sono, per necessità sottintesi o richiamati nel testo per quel tanto indispensabile che giovi alla comprensione del nuovo stile.

Interpretando così, sotto un altro punto di vista l’efficace distinzione di due diversi momenti della Camerata, sembra di poter concludere che lo stile monodico del primo periodo fu meno innovatore, in quanto conseguenza del lungo movimento cinquecentesco, risoluzione di una crisi musicale ormai matura nella coscienza artistica italiana. Il secondo momento è invece quello del «recitar cantando» nel suo tono specificamente drammatico-rappresentativo; o meglio ancora: nel suo tono più appassionato di esperienza artistica essenzialmente rivolta a trovar gli esatti e nuovi rapporti fra parola e suono, fra poesia e musica, proprio nella nuova atmosfera del dramma alle cui necessità si voleva adeguare non lo stile monodico genericamente inteso, ma bensì lo stile tipico del recitar cantando. Stando così le cose, resterebbe da chiarire il rapporto Peri-Galilei, poiché entrambi gli autori sembrano assai vicini ad una comune concezione drammatica; ma qui purtroppo lo storico si arresta dinanzi alla mutilazione che il tempo ha inferto ai documenti. Ci mancano gli esempi delle monodie galileiane delle Lamentazioni di Geremia e del Conte Ugolino e troppo pochi sono i frammenti rimasti dalla «Dafne» musicata dal Peri, nonché quelli di Jacopo Corsi; ma è assai arrischiato pensare ch’essi sostanzialmente differissero o fossero di tanto superiori alle musiche che subito seguirono. Resta la documentazione teorica, il Dialogo della musica antica et della moderna e qui rimandiamo all’accurato studio del Fano, in particolar modo al capitolo riguardante i rapporti del Galilei con i musicisti della Camerata; studio che è la più complessa rivalutazione dei principi teorici, dai quali sarebbero derivate le opere d’arte che danno alla Camerata stessa l’importanza e l’originalità di un movimento estetico che avrebbe per principale propulsore il Galilei. Riassumendo, il Fano sostiene che: «tanto quel movimento quanto quella fioritura artistica riassumono e risolvono la tendenza dominante nello spirito musicale italiano lungo tutto il sec. XVI, per la quale dall’espressione di ciò che nel sentimento umano aspira a sublimarsi, anzi a indiarsi nel superamento e nell’acquetamento delle passioni in virtù della contemplazione religiosa, ci si volgeva a quella più realistica delle passioni in se stesse, anzi dei contrasti patetici, dell’amore in senso moderno; ai quali sentimenti i musicisti diedero dal principio del Seicento il più libero sfogo, pur redimendoli nella catarsi artistica e tragica»[9].

Infine, il Torrefranca ha sostenuto una interpretazione che si può dire prevalentemente musicale. «I fiorentini ritornarono, sì, consapevoli ai Greci, ma per chiedere loro a prestito un pericoloso, anche se fecondo, strumento di critica: la dottrina dell’ethos ossia del valore sentimentale ed etico, si noti bene, della musica. Vincenzo Galilei e Girolamo Mei ne fanno il nucleo palese o segreto di ogni loro ragionamento». Alla suggestione generica della tragedia greca si sostituisce così un elemento di ben altra efficacia e per l’interpretazione della nascita del nuovo stile sarebbe «il bandolo della matassa che i critici hanno cercato per tanto tempo, senza mai trovarlo»[10]. Ma il recupero, per così dire, archeologico dell’ethos attraverso i diretti documenti musicali non fu possibile e fu tentato invece attraverso l’interpretazione di testi letterari che descrivevano ed esaltavano la forza espressiva della musica greca eticamente considerata; ed anche per questo verso si riconferma l’intellettualismo generatore della riforma.

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L’ultimo studio complessivo sull’argomento è di Nicola Valle, ad ha appunto per titolo: Origini del melodramma. Non più, dunque, analisi parziali e contributi su singoli aspetti, ma una soluzione o revisione integrale del problema. Chiare parole si leggono, dopo alcune pagine introduttive: «È dunque un errore considerare il melodramma come una forma schiettamente letteraria o musicale; bisogna studiarlo tutt’al più come un’arte che assume forme ognora diverse e si pone dei problemi come altrettanti modi di vita, poiché problema significa ansia di vita, ed inesausta brama di progresso»[11]. Ottima esigenza, che dimostrerebbe una maturità di pensiero, un’esperienza storica di altissimo pregio; ma la gioia ha breve durata, purtroppo, perché nella pagina seguente il Valle è fortemente legato ad alcuni esiziali pregiudizi. «A differenza della pittura e della scultura che hanno per oggetto la realtà concreta, più o meno trasfigurata dall’artista, la musica e la poesia hanno invece per oggetto la realtà astratta, ossia la vita dello spirito. Ma se la poesia può, per mezzo di parole e di frasi, narrare, alla musica per mezzo dei suoni non è dato che esprimere appena quei sentimenti che invece dalla poesia possono venir definiti». Affermata questa opposizione nella funzione espressiva delle arti, estrinsecamente differenziate, è logico che così si concluda: «Questo mi sembra essere il vero punto d’incontro: la possibilità per la musica di approfondire per mezzo dei suoni il dato proposto dalla poesia». Così posto il problema, il libro rintraccia in tutte le precedenti manifestazioni storiche, sacre e profane del Medioevo e del Rinascimento i segni precursori di quella realizzazione che sarà compiuta per la prima volta nell’Orfeo monteverdiano: «I versi del dramma creano un’atmosfera di poesia entro cui si svolgerà in rapida sintesi una vicenda drammatica, senza però soverchiare od asservire la musica, bensì facendo sentire quasi il bisogno di essa, che sarà chiamata a dire le parole del cuore a commento dell’azione. Così la musica ha la sua ragion d’essere nel dramma»[12]. Tutto lo svolgimento dell’indagine è messo alla dimostrazione di questa tesi ed è chiaro che il libro si salva, se mai, nelle analisi e nelle osservazioni particolari, e fallisca nelle conclusioni generali. Il saggio è assai diseguale, ha lacune gravi di preparazione; interi aspetti e tendenze della storiografia musicale-drammatica gli sono totalmente sconosciuti. Pur tuttavia non si vuol riuscire ad una severità eccessiva nei suoi riguardi, forse in quanto le recise e inaccettabili asserzioni vengono da un giovane, ché tale lo fa supporre un simpatico accento di fervore e una ingenua volontà di analisi esauriente.

Il Valle, si deve sperarlo, potrà superare i punti morti che tolgono possibilità di espansione al suo pensiero se con un’ulteriore mediazione giunga a rifiutare l’assunto fondamentale del libro, che ora gli sembrerà una cara e gelosa conquista.

Vorremmo soprattutto ch’egli si persuadesse che nel suo volume ha accettato una sterile posizione di pensiero ch’è la più aspra condanna del potere espressivo, ossia dell’autonomia spirituale della musica in quanto arte. Il più valido aiuto ad approfondire l’essenziale importanza del problema gli verrà da uno studio di Alfredo Parente[13] ch’è quanto di più limpido si sia scritto intorno all’interpretazione estetica della musica e il suo rapporto con lo spirito artistico unitariamente inteso.

Il saggio di Parente, d’intonazione rigorosamente estetica, accoglie largamente i più essenziali motivi critici riferentisi al «problema dell’opera» acutamente svolti nei vari capitoli ad esso dedicati. Considerate di natura estrinseca e incidentale le ragioni per lo più storicamente date come indispensabili al formarsi dell’opera, il Parente ritiene che tutti i moventi di solito addotti tutt’insieme non valgono quanto la reazione che non «pochi teorici della fine del Cinque e del principio del Seicento opposero al formalismo di gran parte della musica medioevale, e fu ispirata, com’è noto, particolarmente dall’abuso del contrappunto, sempre più teso verso costruzioni più cerebrali e ricercate e ingegnose, che non drammatiche ed espressive dell’interiore umanità e vita dei musicisti»[14]. Orbene, sia detto il più esplicitamente possibile, non crediamo affatto a questo momento deteriore della musicalità umana che sarebbe rappresentata dalla preferenza espressiva per il contrappunto. Qui, o sbaglio, il Parente è ancora fortemente avvinto ad una concezione romantica che gli rientra in circolo come succo e sangue della sua personale sensibilità artistica ed esperienza storica. Uno spirito avveduto e sagace come quello del Parente non può riuscire alla condanna espressiva del contrappunto, ma tuttavia mi sembra chiaro che il problema estetico dell’opera fu veramente posto la prima volta «quando nacque l’esigenza di sollevare la musica dal vuoto esercizio combinatorio ed estrinsecamente sbalorditivo dei suoni, per ricondurla al raccoglimento espressivo, e farne linguaggio del sentimento e specchio dell’interiore dramma umano»[15].

Ma perché questa distinzione? Linguaggio del sentimento e specchio dell’interiore dramma umano, non sono l’essenza non pur della musica, ma dell’arte stessa in ogni sua possibile forma ed espressione? Perché un carattere estetico universale diventa qui un carattere storico, proprio e contingente di una determinata esperienza storica? Con tale distinzione si verrebbe a legittimare l’esistenza di almeno due estetiche diverse, una per il Medioevo, l’altra per i tempi moderni, dal Rinascimento in poi; infinite le possibilità storiche dell’arte, ma uno il significato e la funzione dell’arte, nella totalità dello spirito umano. È questa una limpida verità che sostanzia il fervido pensiero del Parente.

***

Fra progressi d’interpretazione critica e ritorni, sia pure fatti prudenti da una più scaltrita modernità di analisi, alle posizioni tradizionali, le origini del melodramma continuano a suscitare l’interesse della storiografia contemporanea. Noi crediamo che un progresso decisivo potrà derivare non soltanto dall’approfondimento dell’indagine propriamente storica in ogni direzione, largamente culturale, o specificamente letteraria, scenografico-teatrale, musicale: ma soprattutto da una maggiore raffinatezza di metodo atta a determinare la legittimità d’esistenza del problema stesso. Dopo tante dispute moderne, dopo tante conquiste critiche è forse difficile trovare chi creda sul serio alla realtà di un «genere» artistico, e non perché sia mosso soltanto da un elegante atteggiamento di fronda. Praticamente, però, quando si passa all’esame concreto del problema storico, il genere ritorna in tutto il suo tradizionale vigore, non soltanto come termine sbrigativo d’utilità pratica. E cioè si continua a dire: Peri ha realizzato meglio il dramma, Emilio de’ Cavalieri meglio ancora sarebbe riuscito, se la materia ascetica non gli avesse impedito più libero volo, ecc. Né più né meno di come dicevano gli autori stessi, proponendosi alla posterità come inventori del nuovo stile: siamo ancora alla posizione seicentesca del problema quando «drammatizzare la musica significò darle, mediante un soggetto e uno svolgimento scenico, la determinatezza dell’espressione, lo scheletro o il sostegno, affinché essa non si andasse svagando dietro pure ricerche di effetti fonetici», ma trovasse nella «poesia e nell’azione scenica una guida e uno scopo e del dramma diventasse ancella, calando dalla sua sfera di autonomia alla funzione di commento e accentuazione e colorimento del dramma»[16]. Ossia intellettualistica negazione del potere espressivo della musica, che ha invece un’autonomia di linguaggio ch’è soltanto sua e che la libera dalla schiavitù alla quale vogliono ridurla chi pretende empirica precisione d’immagine e di concetto. Come se prima la musica non fosse mai stata capace di esprimere il dramma, certo non l’ideale drammatico vagheggiato nel Seicento, ma il suo proprio dramma. E così si disse e si dice ancora: origine del melodramma, esteriorizzando il concetto e sostituendo al significato universale ed eterno un altro storico, contingente, proprio di determinate esperienze. Si attribuisce, in sostanza, fissità normativa al melodramma secondo un’analisi ch’è stata sinora in prevalenza condotta su questo schema: riconosciuti e simboleggiati alcuni elementi esteriori del melodramma, storicamente affermatisi nei secoli, si è rintracciata l’origine nell’isolamento singolo di ogni elemento, come se unica fosse da determinare l’essenza del melodramma e lo spirito non fosse suscettibile di tutte le possibili incarnazioni in cui sempre nuovo e diverso è il rapporto di ogni mezzo espressivo, verbale, sonoro, scenico, nessuno escluso. Soltanto in tal modo si possono determinare non dico le cause dalle quali sarebbe derivato il melodramma, ma, escludendo il rapporto fallace di causa ed effetto, illuminare le ragioni stesse nelle quali le nuove forme artistiche si risolvono e si identificano nel loro storico, concreto affermarsi ed esistere. Vuol dire, in altre parole, svellere il melodramma da quell’irreale astrattismo in cui l’ha fatto arenare l’indirizzo intellettualistico dell’indagine, per poter più limpidamente comprendere l’umanità dell’artista nella realtà di tutto quello che si è trasfigurato in novità di linguaggio. Linguaggio che è mobile vita e non inaridito schema: sempre nuovo e diverso nella sua spiritualità, ch’è creazione e non ripetizione. A questa interpretazione storica si può giungere non certo rifiutando od opponendosi al lavoro sinora compiuto, senza del quale non sarebbe nemmeno pensabile; anzi essa non sarà possibile sin quando storici della letteratura, del teatro, della musica e d’ogni altra attività di cui si renda necessario lo studio, ciascuno nei limiti non duramente segnati della specialità professionale, non avranno offerto i materiali sicuri ed esatti. L’artista grande, si sa, trasfigura e ricrea ogni necessario elemento per l’opera sua: meno facilmente si ammette che soltanto ad un interprete grande, un De Sanctis ad esempio, sia dato compiere ciò che non è da tutti, rivelare come ciò sia avvenuto nella verità della Storia. Agli altri lavorare con umiltà per rendere possibile la geniale fatica del grande, nuovo interprete futuro.


[1] A. Belloni, Il Seicento, ed. F. Vallardi, Milano 1929, pag. 403.

[2] A. Parente, p. 133 del libro più avanti citato.

[3] L. Tonelli, Il teatro italiano. Dalle origini ai giorni nostri, Ed. Modernissima, Milano 1924.

[4] D. Alaleona, Studi sulla storia dell’oratorio musicale in Italia, ed. Bocca, Torino 1908, pag. 143 e sgg.

[5] J. Gregor, Weltgeschichte des Theaters, ed. Phaidon, Zurigo-Vienn 1933, pag. 392.

[6] H. Besseler, Musik des Mittelalters und der Renaissance, ed. Athenaion, Postdam 1932, pag. 303.

[7] R. Haas, Musik der Barocks, ed. Athenaion, Postdam, 1928, pag. 26 e sgg.

[8] A. Della Corte e G. Pannain, Storia della musica dal ‘500 al ‘900, ed. Utet, Torino 1936, pag. 20 e sgg.

[9] F. Fano, Prefazione alle musiche di V. Galilei, Vol. IV delle Istituzioni e Monumenti dell’Arte Musicale italiana, ed. Ricordi, Milano, 1934, pag. LXXVII.

[10] F. Torrefranca, Il Melodramma nel volume a cura di D’Amico Storia del teatro italiano, ed. Bompiani, Milano 1936, pag. 141.

[11] N. Valle, Origini del melodramma, ed. Ausonia, Roma 1936, pag. 29.

[12] Ibid., pag. 64.

[13] A. Parente, La Musica e le Arti, ed. Laterza, Bari 1936.

[14] Ibid. pag. 130.

[15] Ibid. pag. 132.

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