Il problema delle «origini» del melodramma: l’affermazione teorica del nuovo rapporto tra parola e musica

di Luigi Ronga – In “Lezioni di storia della musica”, Tomo I, Accademia Nazionale dei Lincei, Roma 1991, pp. 479-486.

Durante il sec. XVI la polifonia è al suo splendido meriggio, ma porta già in sé elementi dissolvitori; il nuovo gusto si muta lentamente e nuove esigenze si affermano. A questa trasformazione prendono parte non soltanto i musicisti, ma anche i trattatisti e i teorici: la loro azione è di solito trascurata, ed invece ha notevole importanza. Per lo più vengono considerati lodatori del tempo antico, come pedanti ciechi e sordi alla vita che si svolge e si rinnova accanto a loro; oppure la loro funzione storica viene arbitrariamente ristretta alla revisione delle leggi acustiche ed armoniche. Essi appartengono al mondo della cultura del Rinascimento e sovente sembrano limitarsi all’analisi pratica, empirica dei presupposti che regolano il contrappunto e l’arte polifonica; ma con tale atteggiamento fa singolare contrasto l’astrazione speculativa nella quale ancora si avvolgono, ma da questa, in crisi di chiarezza, nasceranno nuovi pensieri e nuova coscienza.

L’Italia possiede nel Cinquecento tutta una serie d’insigni teorici, fra cui spiccano con singolare rilievo Nicolò Vicentino, Gioseffo Zarlino e Vincenzo Galilei. Intorno alle questioni da loro poste, gli eruditi si appassionano, si accapigliano nella discussione con fervore inesausto ed avvengono frequentemente polemiche e sfide, assai tipiche del costume cinquecentesco. Ad esempio, nel 1555 Nicolò Vicentino (1511-1572) pubblicò «L’Antica Musica ridotta alla moderna pratica», che venne attaccata dal contemporaneo Zarlino, poi dall’Artusi, dal Doni e da altri teorici, che gli negarono una retta comprensione dalla musica greca, in quanto il Vicentino sosteneva possibile, anzi necessaria, l’applicazione dei generi cromatico ed anarmonico dei greci nell’impoverito diatonismo della pratica corrente. Oltre tali controversie tecniche, oltre le dimostrazioni erudite si sprigiona dal suo libro un pensiero fondamentale che non sempre è stato sufficientemente messo in rilievo. Quale pensiero muoveva il Vicentino a sostenere l’applicazione dei generi melodici greci? Soltanto un senso di artificiosa sottigliezza, come si è sempre detto? No: egli nel 1555 non faceva che rendersi interprete di quel diffuso movimento di idee che propugnava il ritorno alla musica antica, come l’unico rimedio possibile per vincere l’abuso degli artifici del contrappunto. In tal modo, si può facilmente dimostrare che il cosiddetto ellenismo dei novatori fiorentini ebbe precedenti storici d’importanza assoluta, per i quali si giunge ad una valutazione più equilibrata di quel periodo di transizione, così fortemente accentuato in alcune posizioni teoriche, nella seconda metà del sec. XVI. Del resto, acuto contrappuntista, il Vicentino precedette lo Zarlino nell’esatta, esplicita enunciazione di molti principi fondamentali, non dirò soltanto di tecnica, ma della complessiva concezione musicale del tempo. Per esempio, egli dice esplicitamente: «Gran differenza si farà a comporre una composizione da cantare in Chiesa a quella che si ha da cantare in camera et il Compositore de’ havere il suo giuditio limato ed comporre le sue composizioni secondo il suggetto ed il proposito delle parole… et l’ordine di comporre le compositioni volgari de’ essere piacevole ed inteso senza canoni ed senza troppo sottilità di proportioni, perché tali parole come sono Madrigali, non ricercano se non imitare la natura di consonanze et de gradi applicate a quelle». Tali esigenze ed altre acute osservazioni saranno riprese e svolte dai teorici successivi e ripetute con insistenza dai novatori fiorentini; analogamente, quand’egli tratta del «modo di pronuntiare le sillabe lunghe et brevi sotto le note; et come si dee imitare la natura di quelle», nonché quando enuncia le regole di scrivere le parole sotto le note che siano agevoli al cantante.

Tre anni dopo, nel 1558, vengono pubblicate a Venezia «Le Istituzioni armoniche» di Gioseffo Zarlino[1], il più grande teorico italiano del Rinascimento. Egli attacca le conclusioni del Vicentino e assume un prudente riserbo verso la musica antica, che ben rivela la sua mentalità, più scientifica e meno astratta; poco si fida delle appassionate, ma vaghe descrizioni della musica antica ed ha in sospetto tali atteggiamenti, e della musiche greche sostiene ch’è impossibile farsi un’immagine concreta poiché «il loro uso essere totalmente spento, che non potemo trovare di loro vestigio alcuno». Non è poco dire, se dopo aver rilevato le manchevolezze antiche, si esprime così: «ma se la musica antica haveva in se tale imperfettione, non par credibile, che i musici ci potessero produrre negli animi humani tanti vari effetti, come nelle Historie si raccontano». Ma lo Zarlino, uomo del Rinascimento, si guarda bene dall’assumere un atteggiamento irriverente verso l’antichità greca e s’affretta in altro luogo a dichiarare: «Et diciamo che grandemente dobbiamo lodare et riverire i Musici Antichi conciosa che per la loro virtù, col mezzo della Musica esercitata nel mostrato modo, succedevano tali et tali effetti meravigliosi, che il raccontarli sarebbe quasi impossibile: et l’affirmare che ciò fusse vero incredibile».

Egli è il più penetrante analizzatore nel Cinquecento del suono e della voce umana nelle loro virtualità espressive in rapporto all’arte del tempo; la sua importanza storica è di prim’ordine perché con chiarezza si fa banditore del principio dell’espressione musicale, in quanto sinteticamente compenetrata di elementi sentimentali ed intellettuali. «Essendo nato l’huomo a cose molto più eccellenti, che no è il cantare ò sonare di Lira ò altra sorte d’istrumento per satisfar solamente al Senso dell’udito, usa male la sua natura e devia dal proprio fine, poco curandosi di dare il cibo conveniente all’intelletto». Cosicché, superato il concetto di empirismo musicale, egli concede che la musica greca facesse nascere determinati effetti sull’animo umano: «Ma a fin che queste cose non parino favolose et strane da udire, vedremo quello che poteva esser cagione di tali movimenti. Però se noi vorremo esaminare il tutto, ritroveremo che Quattro sono le cose, le quali sempre concorrono insieme in simili effetti: delle quali mancandone alcuna, nulla o poco si potrebbe vedere. È adunque: la prima l’Harmonia, che nasce dalli suoni, o dalle voci; la seconda, il Numero determinato contenuto nel Verso, il qual nominiamo Metro; la terza la Narratione di alcuna cosa, la quale contiene alcuno costume: et questa è la Oratione, overo il Parlare; la quarta et ultima poi è un Soggetto ben disposto, atto a ricevere alcuna passione». Più avanti, mette in rilievo il potere che ha la parola «di muover gli animi et piegarli in diverse parti… quando sarà congiunto coi Numeri ed coi Suoni musicali et con le Voci» e fonda le sue dimostrazioni con principi che saranno poi assunti dai riformatori fiorentini: la sua persuasione rimane tuttavia armonizzata nell’insieme di una complessa concezione, che tiene conto di tutti gli elementi della pratica musicale.

Occorreva che sorgesse un assertore più deciso, più violento della supremazia espressiva della monodia sulla polifonia e che, a sua volta, si dimostrasse consapevole campione della lotta contro il contrappunto, causa di tutte le incomprensioni e manipolazioni del testo poetico: tale entusiastico campione fu Vincenzo Galilei (1533-1591), autore del Dialogo della Musica antica et della moderna (pubblicato nel 1581). Quest’opera si è formata nell’ambiente fiorentino ed è imbevuta di filosofia platonica; essa è un documento prezioso per la conoscenza delle idee generatrici della riforma della Camerata de’ Bardi. L’Autore dimostra una conoscenza diretta dei testi degli antichi teorici greci e dispiega un’analisi serratissima dei generi melodici, con formule matematiche e ininterrotti riferimenti alla musica del suo tempo; aggiunge la descrizione di strumenti greci, atti a riprodurre i generi descritti e infine pubblica i tre inni greci di Mesomede (al Sole, a Nemesi, alla Musa) che però dovevano venir decifrati soltanto nel secolo scorso (1847) dal Bellermann e dal Fortlage. Sulla vasta materia di indagini e di discussioni erudite dominano però, con perfetta consapevolezza di posizione teorica e polemica, due principi essenziali: l’ideale superiorità dell’antica musica greca e la persuasione di essere ragione di vita per la musica moderna imitare l’antica.

Fra i molti passi che si potrebbero citare per mostrare quanta importanza abbiano avuto i principi di Vincenzo Galilei nel movimento intellettualistico dei musicisti della Camerata de’ Bardi, i seguenti indicano meglio di altri, lo stato d’animo che si cercava di determinare contro la polifonia vocale del tempo. «Considerate de moderni contrappuntisti ciascuna regola in sé stessa, ò volete tutte insieme, non tendono ad altri, che al diletto dell’udito, se diletto si può con verità dire, al modo dell’esprimere i concetti dell’animo, e d’imprimergli con quella efficacia maggiore che si potrebbe nelle menti degli ascoltatori… L’osservationi e regole loro, non comprendono altro che la maniera del modulare intorno gli intervalli musici; cercando che la Cantilena sia contesta d’accordi variati, secondo i precetti detti di sopra; senz’altramente pensare all’espressione del concetto e senso delle parole: e se mi fussi lecito, vorrei con più esempi d’autorità mostrarvi, che tra i più famosi contrappuntisti di questo secolo, ve ne sono di quelli che non le sanno ne anco leggere, non che intendere. L’inconsiderazione e ignoranza di che, è una delle cagioni potentissime, che la musica d’hoggi non operi negli uditori alcuni di quelli virtuosi e mirabili effetti, che l’antica operava».

Per il Galilei la «più importante e principale parte che sia nella musica è l’imitazione de’ concetti che si trae delle parole»; è naturale quindi ch’egli si scagli contro i «nuovi abusi de’ contrappuntisti intorno l’imitazione delle parole». Ecco l’intero passo: «Altra volta diranno imitar le parole, quando tra quei lor concetti ve ne siano alcune che dichino “fuggire” o “volare”, le quali profferiranno con velocità tale, e con sì poca grazia, quanto basti ad alcuno immaginarsi; et intorno a quelle, che averanno detto “sparire”, “venir meno”, “morire”, o veramente “spento”, hanno fatto, in un istante, tacere le pari con violenza tale che, invece d’introdurre alcuno di quelli affetti, hanno mosso gli uditori di riso, et altra volta a sdegno; tenendosi per ciò d’esser quasi che burlati. Quando poi averanno detto “solo”, “due”, o “insieme”, hanno fatto cantare un solo, due e tutt’insieme con galanteria inusitata. Hanno altri nel cantare questo particolar verso d’una delle sestine del Petrarca: “E col bue zoppo andrà cacciando Laura”, profferitolo sotto le note a scosse, a onde, e sincopando, non altramente che se eglino avessero avuto il singhiozzo: a facendo menzione il concetto che egli hanno tra mano (come alle volte occorre) del romore del tamburo, o del suono delle trombe, o d’altro strumento tale, hanno cercato di rappresentare all’udito con canto loro il suono di esso, senza fare stima alcuna d’aver pronunziate tali parole in qual si voglia maniera inusitata. Quando ne hanno trovate che dinotino diversità di colori, come “brune” o “bianche chiome” e simili, hanno fatto sotto ad esse, note bianche e nere, per esprimere a detto loro quel sì fatto concetto astutamente e con garbo: sottoponendo, in quel mentre, il senso dell’udito a gli accidenti delle forme e de’ colori, i quali oggetti sono particolari della vista e del tatto nel corpo solido… Sotto una parola che dirà, come alle volte occorre: “piangere”, “ridere”, “cantare”, “gridare”, “stridere”, overamente “falsi inganni”, “aspre catene”, “duri lacci”, “monte alpestro”, “rigido scoglio”, “cruda donna”, o altre sì fatte cose (lasciando da parte quei loro sospiri, le disusate forme ed altro), le profferiscono, per colorire gli impertinenti e vani disegni loro, né più insoliti modi di alcuni remoto barbaro. Infelici, non si accorgono che se Isocrate, o Corace, o altri più celebrati oratori avessero, orando, profferite una sol volta due di quelle parole sì fattamente, avrebbero mosso nell’istesso tempo tutti gli uditori a riso e sdegno; e sarebbono da essi stati inoltre scherniti e vilipesi, come uomini stolti, abbietti e di nullo valore».

Proseguendo, il Galilei vuol mostrare che nessuna persona di giudizio intende «esprimere i concetti dell’animo col mezzo delle parole, in quella sì fatta ridicola maniera; ma in altra da essa molto lontana e diversa». Il passo che segue indica un inatteso riferimento alla naturalezza dell’espressione raggiunta dagli attori della commedia dell’arte, piuttosto che alla dignità ed alla gravità della tragedia antica, cui invece ameranno riferirsi i teorici ed i musicisti della camerata de’ Bardi. Nel paragrafo intitolato «Da chi possino i moderni prattici imparare l’imitazione delle parole» così scrive Galilei: «Nell’istesso modo che gli esprimevano, tra i molti, quelli due famosi oratori poco di sopra nominati, nelle orazioni loro; et appresso ciascuni antico musica di pregio; e se di ciò vogliamo intendere il modo, mi contento mostrargli dove e da chi lo potranno, senza molta fatica e noia, anzi con grandissimo gusto, imparare, e sarà questo. Quando, per lor diporto, vanno alle tragedie e comedie che recitano i Zanni, lasciano alcuna volta da parte le immoderate risa; ed in loro vece osservino, di grazia, in quale maniera parla, con qual voce circa l’acutezza e la gravità, con che quantità di suono, con quale sorte d’accenti e di gesti, come profferite quanto alla velocità e tardità del moto, l’uno con l’altro quieto gentiluomo. Attendino un poco la differenza che occorre tra tutte quelle cose, quando uno di essi parla con un suo servo, ovvero l’uno con l’altro di questi; … come quelli che si lamenta; come quelli che grida; come il timoroso; e come quelli che esulta d’allegrezza. Da’ quali diversi accidenti, essendo da essi con attenzione avvertiti e con diligenza esaminati, potranno pigliar norma di quello che convenga per l’espressione di qual si voglia altro concetto che venire gli potesse tra mano».

E fu a dimostrazione dei principi esposti nella sua opera teorica, che il Galilei compose alcuni canti nel nuovissimo stile presentandogli egli stesso innanzi ad un’eletta raccolta di gentiluomini fiorentini i quali convenivano nella casa ospitale di Giovanni Bardi conte di Vernio; colà, per primo, egli volle mostrare la possibilità della nuova musica[2].


[1] Gioseffo Zarlino (1515-1590), maestro di cappella in S. Marco a Venezia. Il suo nome è affidato alle «Istituzioni armoniche» (1558), alle «Dimostrazioni armoniche» (1571) ed ai «Sopplimenti musicali» (1588); di questi libri il più importante è il primo, vasto trattato che riassume con grande chiarezza tutta la dottrina polifonico-contrappuntistica del tempo e penetra con acutezza nell’essenza dell’armonia moderna.

Lo Zarlino partendo dalla considerazione scientifico-sperimentale del fenomeno acustico riconosce il valore della terza maggiore nel rapporto 5/4, fatto di importanza capitale per la conquista teorica dell’armonia moderna, poiché la sua ammissione nel sistema musicale rende possibile la costituzione dell’accordo maggiore; la terza maggiore si allinea tra le consonanze e unendosi alla quinta genera l’accordo perfetto. Inoltre, lo Zarlino distingue l’accordo maggiore dal minore, fondando il primo sulla divisione armonica della corda, il secondo sulla divisione aritmetica; e perciò non oppone la diversa grandezza della terza, ma determina il posto che essa occupa nell’accordo. Allo Zarlino rimane ancora sconosciuto il principio del rivolto.

[2] Di ciò abbiamo obiettiva testimonianza nella lettera scritta nel 1634 del figlio di Giovanni de’ Bardi, Piero, a G. B. Doni sull’origine del melodramma e che qui riproduciamo integralmente come documento del tempo e fonte sicura d’informazione sulle «origini» del nuovo stile, la descrizione e valutazione del quale rimarrà estranea al nostro assunto.

«Avendo il signor Giovanni mio padre gran diletto alla musica, nella quale, in que’ tempi, egli era compositore di qualche stima, aveva sempre d’intorno i più celebri uomini della città, eruditi in tal professione, e invitandoli a casa sua, formava quasi una dilettevole e continua accademia, della quale stando lontano il vizio, e in particolare ogni sorta di giuoco, la nobile gioventù fiorentina veniva allettata non molto suo guadagno, trattenendosi non solo nella musica, ma ancora in discorsi e insegnamenti di poesia, d’astrologia, e d’altre scienze, che portavano utile vicendevole a sì bella conversazione.

«Era in quel tempo in qualche credito Vincenzo Galilei, padre del presente famoso filosofo e matematico, il quale s’invaghì in modo di sì insigne adunanza, che aggiungendo alla musica pratica, nella quale valeva molto, lo studio ancora della teorica, con l’aiuto di que’ Virtuosi, e ancora delle sue molte vigilie, cercò egli di cavar, il sugo de’ Greci scrittori, de’ Latini, e de’ più moderni: onde il Galilei divenne un buon maestro di teorica d’ogni sorta di musica.

«Vedeva questo grande impegno che uno dei principali scopi di questa accademia era, col ritrovare l’antica musica, quanto però fosse possibile in materia sì oscura, di migliorare la musica moderna, e lavarla in qualche parte dal misero stato, nel quale l’avevano messa principalmente i Goti, dopo la perdita di essa, e delle altre scienze e arti più nobili. Perciò fu egli il primo a far sentire il canto in istile rappresentativo: preso animo e aiuto per istrada si aspra, e stimata quasi cosa ridicolosa, a mio padre principalmente, il quale le notti intere, e con molta sua spesa si affaticò per sì nobile acquisto; siccome detto Vincenzio grato a mio padre, e mostrò segno nel dotto suo libro della musica antica e moderna. Egli dunque sopra un corpo di viole esattamente suonate, cantando un tenore di buona voce, e intelligibile, fece sentire il lamento del Conte Ugolino di Dante. Tal novità, siccome generò invidia in gran parte ne’ professori di musica, così piacque a coloro ch’erano veri amatori di essa. Il Galilei seguitando sì bella impresa compose parte delle Lamentazioni, e responsi della Settimana santa, cantata, nella stessa materia, in devota compagnia. Era allora nella camerata di mio padre Giulio Caccini, d’età molto giovane, ma tenuto raro cantore, e di buon gusto, il quale sentendosi inclinato a questa nuova musica, sotto la intera disciplina di mio padre, cominciò a cantare sopra un solo strumento varie ariette, sonetti e altre poesie, atte ad essere intese, con meraviglia di chi lo sentiva. Era ancora in Firenze allora Jacopo Peri, il quale, come primo scolaro di Cristofano Malvezzi, e nell’organo e stromenti di tasto e nel contrappunto sonava e componeva con molta sua lode, e tra i cantori di questa città era senza fallo tenuto a nessuno inferiore. Costui a competenza di Giulio scoperse l’impresa dello stile rappresentativo, e sfuggendo una certa rozzezza e troppa antichità, che si sentiva nelle musiche del Galileo, addolcì insieme con Giulio questo stile, e lo resero atto a muovere raramente gli affetti, come in progresso di tempo venne fatto all’uno e all’altro.

«Per la qual cosa essi acquistarono il titolo di primi cantori, e d’inventori di questo modo di comporre e di cantare.

«Il Peri aveva più scienza, e trovato modo con ricerca poche corde, e con altra esatta diligenza, d’imitare il parlar familiare, acquistò gran fama. Giulio ebbe più leggiadria nelle sue invenzioni.

«La prima poesia, che in istile rappresentativo fosse cantata in palco, fu la Favola di Dafne del Signor Ottavio Rinuccini, messa in musica dal Peri conposo numero di suoni con brevità di scene, e in piccola stanza recitata, e privatamente cantata, e io restai stupido per la meraviglia.

«Fu cantata sopra un corpo di strumento, il quale ordine fu di poi seguitato nell’altre commedie. Grand’obbligo ebbe il Caccini e il Peri al Signor Ottavio; ma più al signor Jacopo Corsi, che infiammatosi, e non contento, se non dell’eccellente in questa arte, instruiva que’ compositori, con pensiero eccellenti e dottrine mirabili, come conveniva a cosa sì nobile. Sì fatti insegnamenti furono eseguiti dal Peri e dal Caccini in tutte le composizioni di questa sorta ed in varie guise furono da loro composte. Dopo la Dafne, molte favole furono rappresentate del proprio signor Ottavio, il quale, come buon poeta e maestro insieme, con l’amicissimo Corsi, che largheggiava con la mano della libertà, furono sentite con grande applauso, siccome furono le più celebri l’Euridice e l’Arianna oltre molte favolette composte da detti Giulio Caccini e Jacopo Peri. A loro imitazione non mancarono molti altri, che in Firenze, prima sede di questa sorta di musica, e in altre città d’Italia, ma più in Roma, si sono resi, e si rendono mirabili nella scena rappresentativa; fra i primi de’ quali pare da porre il Monteverdi.

«Sono sicuro d’aver male eseguito il comandamento di V.S. Reverendissima, non solo per la tardanza occorsa in servirla, come dell’aver poco sodisfatto a me medesima, perché pochi oggi vivono che si ricordino della musica di que’ tempi. Tuttavia credo, che siccome io la servo con affetto di cuore, così avverrà della verità di quel poco che ho scelto fra molte cose che possono dirsi di questo stile di musica rappresentativa ch’è tanto in pregio».

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