Piero Gobetti (1951)

di Giovanni Spadolini – «La Gazzetta del Popolo», 20 febbraio 1951

È assurdo pensare di classificare Gobetti fra i gruppi politici o gli indirizzi programmatici di oggi. La sua esperienza è legata intimamente a quella della sua generazione ed ha qualcosa di esemplare e di inconfondibile, che non permette le facili analogie, i comodi «se», le ipotesi gratuite. La forza del suo insegnamento sta tutta nei problemi che egli suscitò od impose, contro la retorica generata dalla guerra, contro il vocabolario di assoluti che era tornato dalle trincee. La polemica ideologica che egli alimentò, diciassettenne o ventenne, dalle colonne delle Energie nove o della Rivoluzione liberale, è tutta condizionata a un’esigenza attuale, a un’esigenza di lotta e di verifica sul piano della lotta: e nessuna delle questioni che lo tormentò o lo appassionò potrebbe porci in una prospettiva intellettualistica, disinteressata ed olimpica.

La stessa interpretazione del Risorgimento, lo stesso mito della «rivoluzione mancata», la stessa raffigurazione del «compromesso monarchico» non servivano tanto a riaprire un problema storiografico quanto a soddisfare una domanda e un imperativo politico, «contemporaneo» nel senso vero della parola: e l’Omodeo mostrò di non comprenderne le ragioni profonde quando sottopose il Risorgimento senza eroi a una critica metodologica e scientifica, sia pur pertinente. A una società che confidava nell’efficienza insuperabile dello Stato, del «suo» Stato, lo scrittore torinese insegnò a dubitare, a guardare dentro, a non contentarsi delle apparenze: le insufficienze del centralismo burocratico, i vizi del sistema protezionistico, le insidie dei gruppi monopolistici, la gracilità e l’esilità dell’economia italiana, tutta collegata alle sovvenzioni e alle protezioni dall’alto, furono documentate col rigore, con l’asciuttezza, con l’intransigenza che eran propri dell’uomo.

Sia pur attraverso una cultura composita, frammentaria e incoerente, Gobetti sentì come pochi la «frana» delle istituzioni, del vecchio organismo liberale-nazionale: lo sconvolgimento della guerra, le conseguenze del suffragio universale, la dissoluzione della classe dei notabili, il sovvertimento della proporzionale, l’avvento dei cattolici nella vita politica. In rottura della tradizione riformista e democratica del socialismo, l’esplosione dei vari irrazionalismi di classe.

Non contentandosi degli schemi ufficiali del liberalismo o del radicalismo, mirò a risalire alle origini di quel processo, a scoprire, nella stessa vita della democrazia italiana, le ragioni lontane dell’involuzione e delle contraddizioni attuali: e i suoi pensieri raggiungono in certi punti, le profondità di un’esplorazione misteriosa e rabdomantica. Per la sua stessa vocazione di uomo e di studio, per la sua ripugnanza dalle semplificazioni e dalle astrazioni programmatiche, per il suo gusto del concreto e del reale, per la sua sete insaziabile della «storia», non volle mai tradurre le sue istanze in un partito politico, contenere e adattare le sue ribellioni in un movimento determinato: e la misura della sua lotta sarà rappresentata sempre dalla rivista, dal cenacolo, dal movimento di idee, dal gruppo di amici, dal sodalizio di «credenti».

Infaticabile in tutte le sue attività, editore, giornalista, studioso di storia, critico d’arte, recensore teatrale, appassionato di letteratura, di filosofia e di pedagogia, non conobbe stanchezze, esitazioni e perplessità e si batté fino in fondo con lo spirito di un «crociato laico», di un «missionario umanista». Molti si sono domandati come Gobetti sia riuscito a comporre, in una sintesi personalissima, influenze così diverse e così contrastanti: ed uno dei capitoli più abbondanti della bibliografia gobettiana e appunto quello che riguarda i maestri, i consiglieri e gli amici. Ma forse la sua forza, il suo segreto, quel «quid» indefinibile e affascinante della sua personalità sta proprio nella diversità e nella complessità delle sue ispirazioni fondamentali: l’idealismo di Croce, il problemismo di Salvemini, l’empirismo di Einaudi, il meridionalismo di Fortunato, il machiavellismo di Pareto, l’attualismo di Gentile, il profetismo di Oriani, il liberalismo di Missiroli, il concretismo di Prezzolini. Dal collegamento con le generazioni precedenti, dalla coscienza critica dei problemi e delle conquiste di ieri, derivò a lui quella estrema libertà mentale che lo salvò dalle chiusure e dai settarismi e lo volse a tutte le voci di rinnovamento e a tutte le esigenze di revisione (e fu quel senso di «apertura» storica e di «pietà» umana che mancò al partito che pur fu l’interprete di alcuni dei suoi motivi più profondi, il partito d’azione).

Contro tutti i compromessi tradizionali della storia italiana, contro i vari «trasformismi», depretisiani o giolittiani, contro i residui dell’educazione borbonica e sanfedista, Gobetti richiamò al coraggio dei propri ideali, all’assunzione delle proprie responsabilità, all’eroismo del proprio «impegno»; e sembrò a qualcuno, forse non a torto, che quell’atteggiamento nascondesse un residuo di irrazionalismo e di attivismo. Quando il fascismo, attraverso la collusione monarchica, gli apparve come una forma di «giolittismo corruttore», il direttore della Rivoluzione liberale non esitò a tessere l’elogio della ghigliottina e dichiarò di preferire il Mussolini despota al Mussolini legalitario: quasi che l’esperienza della tirannide potesse almeno servire a risvegliare le energie latenti degli italiani, a «liberarne» gli slanci trattenuti e profondi.

Forse la sua fiducia nei «consigli di fabbrica», la sua amicizia coi comunisti torinesi, i suoi legami personali con Gramsci nascono da quell’esame critico della situazione italiana; ma la «rivoluzione» che egli sognava (e per la quale non disperò di utilizzare la collaborazione del proletariato qualificato) era una rivoluzione antiburocratica, anticentralistica, antimonopolistica – esattamente l’opposto di quelli che saranno gli sbocchi del comunismo. In un certo senso, Gobetti si riproponeva il problema fondamentale del post-Risorgimento – l’inserzione del proletariato nello Stato – e pensava che per risolverlo il liberalismo avrebbe dovuto divenire la «coscienza» della classe operaia e instaurare la concorrenza, la selezione, la gara al posto dei compromessi e delle transazioni care allo statalismo economico. Il filone autonomistico e federalistico, che in lui derivava direttamente da Cattaneo, lo avvicinava a una soluzione «libertaria» del problema sociale, come problema di iniziativa e di autoconquista; e non c’è dubbio che su di lui operò l’influenza della corrente ereticale italiana, che si riallacciava a Pisacane e a Ferrari.

Nella stessa rivoluzione russa, alle sue origini, Gobetti vide «un’esperienza di liberalismo», per le stesse ragioni, pressappoco, di Giorgio Sorel: e cioè per l’influenza che il «Soviet», il nucleo operaio organizzato e responsabile, avrebbe potuto avere sulla formazione e sull’elaborazione della nuova classe dirigente. Pur attraverso sbandamenti e incertezze, Gobetti sentì che il liberalismo italiano non avrebbe potuto sopravvivere senza quella che Bergson avrebbe chiamato la «scissione», la separazione netta dai ripieghi e dai compromessi del «socialismo di stato», e del «paternalismo economico»; e la sua esaltazione dei grandi imprenditori del nord, dei solitari eroi del capitalismo, stava a testimoniare la sua fede nella lotta e nella dialettica come unica misura di rinnovamento.

La democrazia parlamentare «ancien regime» gli apparve come un equivoco costituzionale finché non fosse stata investita dal soffio di una competizione politica articolata e conseguente; e nella formazione dei grandi partiti organizzati credé di scorgere un passo avanti sulla via delle nuove «élites» politiche. Lo stesso partito popolare, tanto odiato dalle vecchie consorterie liberali, trovò in Gobetti un giudice e un interprete molto più acuto e sensibile; e forse egli sperò, a un certo momento, di incanalare la sinistra cattolica nel suo piano di «rivoluzione antiburocratica», sfruttando la rivolta alle vecchie strutture parassitarie dello Stato italiano.

«Straordinario organizzatore di cultura», come lo chiamò Gramsci, lo studente liceale di Energie nove, l’allievo della facoltà di giurisprudenza di Rivoluzione liberale, il critico teatrale dell’Ordine nuovo, il polemista letterario del Baretti, lo scomparso che celebriamo oggi non si preoccupò mai di trasformare la cultura in «pratico ufficio di collocamento», di volgere i sistemi in «certificati per la cattedra». Il suo disprezzo per gli intellettuali conformisti e asserviti arrivò quasi agli estremi di Sorel, che li aveva parificati alle «prostitute», alle meretrici dell’intelligenza. Né il suo spirito poteva volgersi alle soluzioni comode e definitive, a quelle soluzioni che salvano «dal dubbio tragico del pensiero». Il suo pessimismo adombra, in certe pagine, lo stile del Vecchio Testamento.

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