«Passato remoto» di Giovanni Papini (1948)

di Giovanni Spadolini – «Sicilia del Popolo», 4 aprile 1948

Vi sono vari modi di far storia. Vi è quello di scrivere opere d’erudizione, d’analisi o di critica. E tutti credono che sia l’unico o il principale. Ma vi è pur quello di raccontar gli eventi visti o vissuti, osservati o seguiti, assecondati o avversati: vi è pur quello cioè di raccogliere le testimonianze dirette di un certo periodo, di tempo e di un certo complesso d’uomini e di cose, di cui uno abbia avuto personale esperienza.

A questo tipo appartengono varie opere di letteratura, che in nessuna storia della storiografia son schedate ma che dovrebbero pur essere considerate e consultate da chiunque volesse rendersi conto dei caratteri meno appariscenti, e perciò spesso più importanti, di un’epoca. Avviene talvolta che certe opere di ricordi, di memoria o di testimonianze, pur rifiutate o dimenticate dalla critica ufficiale e accademica, riescono tanto più interessanti per il lettore di storia proprio in quanto tengono conto di quell’insieme di spiriti e di forme di cui invece si disinteressa la storiografia aulica.

Ora, uno storico che voglia penetrare l’anima di quel particolarissimo periodo di vita italiana ed europea che sta fra la fine dell’Ottocento e il principio del Novecento non potrà fare a meno di tener presente i moltissimi spunti offerti dall’ultimo libro di Papini «Passato Remoto» («Passato Remoto» pag. 280, Edizioni l’Arco, Firenze L. 550).

Molti giudicheranno di questo libro lo stile, l’originale stile di un Papini castigato eppur mordente, contenuto eppur vibrante, accorato eppur ardente, malinconico senza abbandoni, nostalgico senza rimpianti, ironico senza sarcasmi, tagliente senza violenze. Altri esalteranno di questo libro i «personaggi», quei singolarissimi personaggi di storia che sembran trasfigurati della fantasia, e si fermeranno sulle scene, sulle situazioni, sugli ambienti, che vi sono echeggiati o evocati.

Ma pochi, credo, riconosceranno in questo libro quello ch’esso è principalmente: un documento di un’epoca. È il trentennio fra il 1885 e il 1915 che rivive in «Passato Remoto», quel trentennio di grandi illusioni e di grandi speranze, quel trentennio quasi idilliaco e pacifico, mosso e smosso solo da tempeste culturali e ideali, quel trentennio di raggiungimenti e di risultati che precedé e preparò l’altro trentennio di convulsioni e di sconvolgimenti, che va dal 1915 ad oggi.  

Papini non prevale e non predomina nel corso degli episodi che racconta, non forza il volto dei personaggi che ritrae, non compie (ed egli tiene a dirlo e a ricordarlo) una «autobiografia» nella accezione tradizionale del termine. Ma appunto il valore di «documento» del libro vien confermato e chiarito da questo consapevole impegno di distacco, da questo superior senso di discrezione.

L’orizzonte papiano s’allarga progressivamente. Prima ci troviamo sullo sfondo della Firenze umbertina, di quella città ancor un po’ pigra e provinciale, assonnolita e paciosa di cui l’«Uomo finito» ci aveva dato una raffigurazione così puntuale. È il Papini adolescente, inquieto, curioso, attento, a cui nulla sfugge di quel che di più importante avviene intorno a lui: non gli incontri con personaggi stravaganti o caratteristici («Guida», «Novellino», «Palazzi», «Bovio»), non gli avvenimenti più solenni e memorabili della città («lo scoprimento della facciata o l’esercito rosso»), non le feste gioiose o dolorose («Asia e America» o «Uragano di carità»).

Poi, pur nell’ambito di Firenze, il libro dilata i suoi obiettivi: son le prime emozioni, le prime impressioni, le prime reazioni «politiche» di Papini già giovane di fronte alle disfatte d’Africa, di fronte alle sommosse di maggio, di fronte all’uccisione d’Umberto. Il clima di quegli anni fine secolo d’inquietezze e di scontentezze si risente vivissimo nelle pagine disincantate ed ironiche del Papini che racconta le sue prime esperienze di repubblicano, d’anarchico, di ribelle all’ordine costituito e alle leggi codificate. E entusiasmi e speranze e fedi si alternano in certi capitoli di più scoperto autobiografismo («I martiri di Wagner» e «Palazzo Corsini»).

Improvvisamente, il cerchio di Firenze si spezza. Ed ecco che Papini, il fiorentino navigatore nei mari della fantasia e della poesia, comincia a muoversi verso le realtà dell’arte e della storia, e scopre Roma. Ma quale Roma? Una Roma stracciona e sudicia, parassitaria e indolente.

Gli incontri con uomini di pensiero o d’azione si fanno più fitti, più tesi diventano gli studi, si moltiplicano gli interessi e s’allargano le curiosità: ed ecco che Papini s’impegna nelle esperienze scientifiche (lo stupendo profilo dell’«Asceta osteologo» e un’eco di quel periodo), insoddisfatto della scienza si volge alle passioni della politica (le pagine su Corradini ne sono un documento probante), disgustato della politica s’abbandona ai sogni della filosofia (e brani di quella storia sono i capitoli su Reghini, su James e su Bergson), smagato della filosofia si getta a capofitto nella letteratura (e una testimonianza bellissima è in questo senso l’incontro con D’Annunzio), scontento della sola letteratura s’accosta alla religione (e di qui nascono i commossi ricordi di Amendola), non ancor sazio dei tanti vagabondaggi spirituali si precipita nell’aspro cimento della polemica, morale e intellettuale (e di questo memento troviamo un’eco nelle pagine accorate e distaccate su Marinetti).

Attraverso gli scorci, le reminiscenze, le notazioni di «Passato Remoto» rivivono alcune di quelle singolari esperienze intellettuali dell’Italia dei primi del novecento, che si riallacciano alle riviste di rinnovamento di cui Papini fu creatore e ispiratore dal «Regno» al «Leonardo», dall’«Anima» alla «Voce», dalla «Voce» a «Lacerba».

I politici s’interesseranno a questo libro per i profili di due grandi osservatori della realtà umana, «a notre maitre» Sorel e Pareto, e per i ritratti di due non meno grandi operatori nella realtà italiana, di Rudini e Sonnino. I letterati saranno attratti dalle spiccanti immagini di due poeti d’eccezione, l’ascetico e gaudente Le Cardonnel e l’indemoniato e angelico Campana, e vi ritroveranno pure tre scrittori vivi ancor oggi, Peguy, Remy de Gourmont e Apollinaire. Gli uomini di religione saranno aiutati alla comprensione di un così complesso e contraddittorio periodo dell’anima italiana dagli illuminati scorsi di due eretici di diverse tempra, l’inquieto Bonaiuti e il soddisfatto Minocchi. Gli uomini d’accademia saranno consolati e confortati dal pietoso quadro del poeta professor, il Garaffo, dall’amoroso profilo del «cinese di Livorno», il Puini, e dall’affettuosa presentazione degli «ultimi maestri», di quei Villari, Tocco, Rajna, Vitelli, Mazzoni, Chiarugi e Fano che rappresentarono veramente la prima e forse l’ultima generazione dei grandi professori delle università italiane.

I tipi più strambi, più assurdi, più pazzi, più appassionati, più eterogenei si uniranno a queste figure di storia vera: il «prete darwinista» accanto al «senatore erotico», gli «uomini di piazza» accanto al «pittore benedettino».

Attraverso i personaggi illustri ed oscuri, gloriosi o ingloriosi, famosi od ignoti, di cui Papini racconta, si viene a presentare tutto il volto segreto di un’età, di quella stessa età che imparammo ad amare sulle pagine dell’«Uomo finito».

L’attiva curiosità, lo slancio ardente, la passione costruttiva, quell’ardore d’opere e quella sete di conquiste, quel ricercare cose nuove e sorprendenti, quell’ambire orizzonti sconfinati e magici, quel tentare esperienze straordinarie ed assurde, quell’impulso a scoprire, a conoscere, a indagare, a mutare, a rinnovare, a migliorare il mondo che fu caratteristico del primo quindicennio del Novecento, in Italia e fuori d’Italia, tutto ciò che costituì insomma la nota di un’epoca, trova una nuova conferma nel libro di questo testimone che fu anche un protagonista e certo quell’epoca non è lontana nel tempo, e bene Papini ha fatto a chiamarla «remota»; ma remota non è nello spirito, né di coloro che la vissero né di coloro che oggi la rivivono.

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