L’erede della destra (1950)

di Giovanni Spadolini – «La Gazzetta del Popolo», 13 dicembre 1950

Luigi Albertini è uno degli ultimi grandi rappresentanti della Destra storica. Per quanto nato all’indomani della braccia di Porta Pia, per quanto cresciuto in quel periodo di dissoluzione delle formazioni tradizionali che coincise col trasformismo di Depretis, per quanto arrivato alle battaglie politiche dagli studi economici e dalle esperienze di viaggio, Albertini portò, nell’interpretazione dei fatti e delle vicende della vita italiana, lo stesso spirito di austerità, di probità e di intransigenza che fu proprio dei «diadochi» cavourriani, di quella classe di notabili che sola fondò, in Italia, lo Stato moderno. Molti si sono domandati le ragioni dell’atteggiamento di opposizione e di critica che egli impresse al Corriere della Sera nell’età giolittiana, dal 1902 al 1914; ma è impossibile spiegarsene il perché senza risalire alla formazione mentale dell’uomo, alla sua educazione spirituale, alla sua visione del mondo in una parola. Lungi dall’esaurirsi in quella che fu la sua passione di giornalista e la sua vocazione di editore, Albertini nascose in ogni momento della sua attività professionale un complesso di regole e di principi che ne facevano una specie di missionario laico, un apostolo appassionato e irriducibile della morale civile.

Come tutti i grandi protagonisti della Destra, Albertini era convinto che il Risorgimento non era terminato con la nuova sistemazione giuridico-territoriale ma era destinato a continuare, a espandersi e a penetrare nelle coscienze, trasformando le basi fondamentali del costume e del carattere italiano e liberandolo da quelle falsificazioni e da quelle deformazioni che erano l’eredità dei secoli di decadenza e di espiazione. Vi era in lui qualcosa di protestantico e, meglio direi, di ricasoliano: un rigorismo, un ascetismo del lavoro, una concezione severa ed alta del dovere professionale, dell’onestà politica, dello scrupolo amministrativo, dell’eroismo civico, della lealtà nazionale, al servizio di una sola legge e di una sola regola: quella dello Stato. Liberale alieno da indulgenze reazionarie, egli non si opponeva alle riforme sociali, all’ascesa del proletariato, ma non aveva alcuna fiducia nel paternalismo socialistico delle maggioranze governative e pensava che nessun progresso fosse possibile senza accompagnarsi a una parallela elevazione del costume, a una progressiva trasformazione delle concezioni di vita, a una conquista graduale di ideali e di forme più alte.

Il primo volume delle «Memorie», Vent’anni di vita politica, che Zanichelli ha pubblicato in questi giorni a cura del figlio, Leonardo Albertini, è praticamente dominato, dalla prima all’ultima pagina, dal contrasto con Giolitti, dall’antitesi che chiamerei di educazione e di razza, con lo statista di Dronero: comprendendo il periodo che va dal 1898 al 1908, l’età che parte dall’esperimento Pelloux e arriva alle «riforme di struttura» della «dittatura giolittiana», spazia in quella che fu la stagione migliore dell’Italia liberale, in quello che fu il «decennio felice» dello Stato unitario, ormai uscito dall’infanzia dell’anarchismo della reazione. Eppure, il quadro che esce dalle pagine documentatissime, rigorose ed asciutte del grande giornalista è tutt’altro che idillico ed univoco, e anzi in qualche pagina diventa contrastato e drammatico: con accentuazioni di tono e con asprezze verbali che non meravigliano troppo, quando appena si pensi all’implacabile campagna che il Corriere aveva condotto contro Giolitti e che era culminata nella polemica interventistica.

Un cultore forse troppo devoto degli studi giolittiani, l’on Togliatti, ha dichiarato recentemente ad un giornalista che le «Memorie» di Albertini, pur rappresentando una fonte storica preziosa, dimostrano le eccessive preoccupazioni conservatrici dell’uomo e contengono inspiegabili «ristrettezze sonniniane»; ma la verità è che il contrasto Albertini-Giolitti, lungi dal porsi in termini di classe, ripropone le stesse antitesi insolute del Risorgimento e si riporta all’eredità del riscatto nazionale. All’indomani del raggiungimento dell’unità, la maggior preoccupazione degli uomini della Destra fu quella di creare un ceto dirigente unitario, consapevole e compatto, legato da una comune concezione dei problemi, da una dedizione quasi religiosa e fanatica allo Stato e alla morale pubblica, tale da improntare di sé tutti gli istituti nazionali e compenetrare gradualmente le stesse masse estranee all’esperienza risorgimentale; agli occhi di un Ricasoli come di un Minghetti, di un Sella come di un Lanza, si trattava, prima di tutto, di dare al Regno appena nato la base di un «ordine religioso» non meno tenace, inflessibile e agguerrito delle milizie ecclesiastiche e nutrito della stessa intransigenza, dello stesso coraggio, della stessa lealtà.

A costo di cadere in equivoci pericolosi, a costo di sottoporre il paese a sforzi insopportabili, a costo di rinchiudersi in una specie di «consorteria» orgogliosa e solitaria, la Destra subordinò in ogni momento i problemi amministrativi agli imperativi morali, i calcoli parlamentari alle idealità religiose, gli interessi elettorali alla tutela dello Stato, gli accorgimenti di metodo alle questioni di principio, e, senza rinchiudersi in un conservatorismo esclusivo e intollerante, guardò alle riforme come a uno strumento di trasformazione etico-educativa molto prima che di stabilizzazione politico-economica. La generazione della Sinistra, premuta dalle rivendicazioni dei nuovi ceti che affioravano alla superficie, incalzata dall’attacco del protezionismo industriale e del militarismo burocratico si trovò costretta a imboccare una strada diversa e talora opposta, a dare la priorità al rafforzamento delle strutture giuridiche rispetto a quello delle convinzioni ideali, a optare per la creazione di un equilibrio sociale piuttosto che per la ricerca di una più elevata coscienza morale.

Nell’esperienza giolittiana, Albertini vedeva l’estrema conseguenza di quella «degenerazione» che risaliva all’avvento della Sinistra al potere e alla «dittatura» di Depretis e che portava alla prevalenza del governo sui partiti, dei compromessi elettorali sulle battaglie politiche, dei trasformismi ideologici sulle distinzioni dottrinarie, delle transazioni oligarchiche sull’attività e sulla responsabilità dei ceti dirigenti. Al di fuori di quella che era (e rimane in questo libro) l’eco di passioni contingenti ed effimere, inesorabilmente bruciate dal tempo, il sottinteso della polemica è nella coscienza di pericolo, che la storia dimostrerà tutt’altro che immaginario e retorico: e cioè l’ostacolo che un sapiente complesso di equilibri e di contrappesi avrebbe creato alla formazione di una classe dirigente varia, articolata e moderna, quale poteva nascere solo in un clima di lotta aperta, di concorrenza illuminata e di selezione rigorosa.

Agli occhi del direttore del Corriere della Sera, la libertà era un tutto inscindibile, che investiva i valori più segreti e più gelosi della coscienza; e ciò spiega l’impegno morale che egli portò nella difesa del liberismo e nella campagna contro le prelazioni oligarchiche degli zuccherieri, dei siderurgici, degli agenti di borsa, affiancato dalla penna di un altro insigne giornalista che apparteneva al suo stesso filone ideale, Luigi Einaudi. Critica e autocritica: non solo egli rispettava i diritti delle minoranze, le garanzie sacre dell’opposizione, ma ripugnava dalle unanimità «care al temperamento politico italiano», dalle «unioni sacre» create troppo spesso nel gabinetto del prefetto alla vigilia delle elezioni.

I limiti di Albertini erano in un certo senso i limiti del suo tempo, limiti di gusto, di costume, di mentalità (le sue indulgenze dannunziane sono, a tal proposito, abbastanza significative); ma certe incomprensioni e certe intolleranze e certe ingiustizie, che traspaiono nelle pagine delle «Memorie», servono a illuminare ancor meglio l’epoca che vi è descritta e ricostruita, senza le correzioni e le alterazioni del «senno del poi». Nessuno poteva pensare che, pur scrivendo all’indomani dell’avvento del fascismo, Albertini attenuasse anche in un solo punto la portata delle sue critiche e delle sue osservazioni: ciò sarebbe stato in contrasto con la sua schiettezza, con la sua coerenza, con quel tanto di giansenistico e di calvinistico che era in lui. Ed è una fortuna per noi, che il grande direttore abbia parlato senza «pruderies» e senza preoccuparsi della platea; ché la storia ama le unanimità ancor meno della politica.

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