Il difensore di Machiavelli (1949)

di Giovanni Spadolini – «Il Messaggero», 11 agosto 1949

La polemica contro Machiavelli non è ancora chiusa. Coerentissima da parte dei cattolici, essa è molto meno coerente da parte dei liberali. Per i cattolici, il contrasto è insanabile, essi non potranno mai accettare la distinzione della politica dalla morale, la separazione dello Stato dalla Chiesa, la scissione del cittadino e del credente. È Machiavelli che ha creato le premesse dello Stato moderno, come ente autonomo e autosufficiente che realizza in sé stesso, per il suo volere, per la sua forza, la «sovranità assoluta» che lo emancipa da ogni e qualunque sudditanza religiosa. Dal Seicento ad oggi, il pensiero cattolico ha sempre combattuto, nel machiavellismo, lo spettro dello Stato laico, dello Stato forte, dello Stato sovrano: la logica della teocrazia, che presuppone la perfetta unione fra la politica e la morale, non potrà mai giustificare una rottura, che esalta il primo termine nel suo valore assoluto.

Molto meno si comprende la opposizione di certi liberali al pensiero di Machiavelli. Non sarà male ricordare che alle origini del nostro Risorgimento Machiavelli fu considerato un maestro di libertà repubblicana; e come tale lo esaltarono i giansenisti della fine del Settecento, come tale lo difese Foscolo, come tale lo vide Niccolini, come tale lo guardarono i neoghibellini del ’48. Lungi dal giudicarlo come un amico dei tiranni, molti dei patrioti dell’Ottocento glorificarono in lui non solo il profeta dell’unità nazionale, quello della chiusa del «Principe», ma ancor più l’anticipatore degli ideali repubblicani e democratici brillanti nelle pagine dei «Discorsi». Non era difficile ribattere, ai detrattori «moderati» del segretario fiorentino, che la più violenta polemica contro il machiavellismo era venuta proprio da un re come Federico II, pronto a sacrificare ogni ideale di libertà alla grandezza e alla potenza dello Stato.

Ma il suo difensore più efficace Machiavelli lo trovò in quel filosofo, che giustificò idealmente tutte le audacie del liberalismo moderno e fu tanto spesso scambiato per un conservatore: Hegel. Pochi sanno che nel suo scritto giovanile «Liberty e fato», che vide la luce postumo nel 1893, Hegel valuta la tesi del «Principe» come «la concezione più alta e più vera di un’autentica mente politica animata dei più grandi sentimenti».

Profondamente consapevole com’era del problema nazionale tedesco, ansioso di promuovere la liberazione del suo popolo dal giogo straniero, Hegel esaltò in Machiavelli l’italiano, il patriota, il cittadino, che per primo aveva sentito la necessità di comporre l’Italia in unità di Stato, affrancandola dalle discordie interne e dalle dominazioni esterne. Deluso dalle esperienze della rivoluzione francese, che pur aveva seguito agli inizi con profonda simpatia, dal giacobinismo, irritato dalle menzogne e dalle illusioni dell’internazionalismo, Hegel vide in Machiavelli il grande spirito che, con un realismo disincantato e inesorabile, aveva dissimulato un amore di patria tanto profondo da essere quasi esclusivo.

Il dissidio fra l’esigenza etica e quella politica, fra la voce dell’utile e quella della coscienza – dissidio che Machiavelli aveva aperto col suo libro famoso – non apparve neppure a Hegel giovane, che affermò risolutamente che «uno stato di cose nel quale il veleno e l’assassinio sono diventati armi abituali, non sopporta rimedi miti», e che «una vita prossima alla corruzione può essere riorganizzata soltanto per mezzo del procedimento più forte». Esasperando la logica di Machiavelli, Hegel arrivò a affermare che tutti i mezzi per la conquista dell’unità erano leciti, in quanto l’Italia, operando per divenire Stato, doveva considerarsi già Stato, vale a dire doveva adoprare tutti quegli strumenti di punizione e di sanzione che sono inseparabili dal potere statale.

Con l’approfondimento della sua visione politica, Hegel non poteva più consentire in pieno con le affermazioni fatte in un momento in cui la passione nazionale soverchiava la intransigenza speculativa. Nella «Filosofia della storia», troviamo, infatti, insieme l’esaltazione del genio del Machiavelli, una restrizione notevole rispetto alla liceità di quei mezzi «che noi non possiamo conciliare col nostro concetto di libertà», ma che tuttavia si comprendono nello spirito dell’epoca e nel quadro del fine particolare, che era quello di abbattere «principi dotati di una inflessibile mancanza di coscienza e di una completa abiezione».

L’ammissione aveva un valore contingente e determinato; ma il fatto che nel frattempo Hegel aveva elaborato una teoria politica che superava l’empirismo machiavellico e lo trascendeva in una versione generale dei fini dell’umanità, riflessi incarnati dello Stato, Machiavelli aveva lasciato in eredità un dualismo profondo, che il pensiero moderno non avrebbe potuto mai riconoscere il dualismo fra la politica come «realtà naturale» e il pensiero fra lo Stato come «opera d’arte» e la morale.

Il pessimismo machiavellico, il suo scetticismo di uomo della Rinascenza non gli avevano consentito di sviluppare fino in fondo la concezione dell’autonomia della politica; il suo Stato era ancora troppo un «fatto» strumentale, fisico, di forza. Ma Hegel? Nello Stato che attuava le regole della ragione universale e realizzava la libertà, nello Stato che per la sua intrinseca eticità diveniva a buon diritto «partecipe del celeste», l’antico contrasto machiavellico era superato. Il «machiavellismo», come complesso di regole politiche, non viveva più al margine della morale, ma ne diveniva uno strumento indispensabile.

Lo Stato moderno non sarebbe mai nato, senza l’intuizione di Machiavelli. Ma quell’intuizione non avrebbe dato i suoi frutti, se non fosse passata attraverso il vaglio di Hegel. Machiavelli era ancora soltanto un «laico»; Hegel era già un «credente». Questa è la differenza. Lo Stato moderno, nella sua sostanza ultima, non è altro che la «chiesa» del liberalismo.

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