La crisi del laicismo (1948)

di Giovanni Spadolini – «Il Messaggero», 1° dicembre 1948

A molti sfugge che il problema dello Stato fu il massimo nodo politico in cui si consumò il Risorgimento. Fondare lo Stato per l’Italia significava né più né meno che affermare l’idea civile di fronte all’idea religiosa, il principio della libertà e della laicità di fronte alla tradizione dell’autorità. La verità – e tutti lo sanno – che gli italiani, cattolici per definizione, incapaci di portare a termine quel processo, ritrovarono nel cattolicesimo – secondo le parole di Gioberti – l’ultima loro vivente grandezza.

Vi è un momento, nel Risorgimento, che sfugge troppo spesso all’attenzione degli osservatori: il momento neoguelfo. Il significato del ’48 sta tutto nell’affermazione ideale del neoguelfismo e nel fallimento pratico di quel movimento. Il ’49, suggellandosi a Novara con la proclamazione della missione sabauda e chiudendosi a Roma con l’indicazione unitaria di Mazzini, afferma che l’Italia è capace di governarsi da sé, al di fuori dell’ordine sociale della Chiesa, in una struttura liberale e laica.

Da cent’anni, attraverso i vari partiti che l’han governata, l’Italia non ha avuto altro fine che quello di costruire lo Stato, di incarnare il principio ideale dello Stato, di inverare nella coscienza dei cittadini l’eticità dello Stato. La Destra pose il problema in modo più unitario e più consapevole di tutti gli altri movimenti che seguirono; ma anche Giolitti lo avvertì in altro modo, e pur il fascismo vi si logorò e bruciò.

Orbene, il centenario del ’48, a cent’anni di distanza dal primo neoguelfismo, ha solo un significato occasionale e contingente? Non potrebbe essere che i primi cent’anni della vita unitaria italiana apparissero, a un esame un po’ nuovo, come un continuo, costante, inesorabile fallimento della concezione statalista e laicista, fino alla dissoluzione e alla disintegrazione quasi completa del 1943-’45? È un caso che l’Italia abbia istituito la Repubblica, nel disperato tentativo di fondare lo Stato? Ma il dopoguerra non ha visto forse un fenomeno ben più importante, l’affermazione, cioè, di un nuovo guelfismo, che ripropone, aggiornate e approfondite, le tesi del ’48?

In altre parole: assistiamo o no a una crisi del laicismo? Molti hanno paura a confessarlo; ma le esperienze storiche dell’Italia moderna dimostrano che l’ideologia laicista sta cadendo a pezzi e che l’Italia, incapace di fondare lo Stato, torna necessariamente e logicamente al neoguelfismo del ’48.

Qual è la base del laicismo, se non lo Stato? Come si può sostenere la laicità, senza una profonda concezione dell’essenza e del fine dello Stato moderno? È, infatti, il liberalismo che ha concepito lo Stato come ente autonomo e autosufficiente, dotato di coscienza e di legge morale propria, capace di risolvere tutti i contrasti e superare tutte le antitesi nel suo ambito ideale; il liberalismo, che ha dato vita alla visione dello «Stato etico» di Hegel, dello «Stato-anima» di Spaventa, dello «Stato-spirito» di Gentile, è il liberalismo che ha visto nello Stato l’universalità dei cittadini, nella nazione la forma storica dello Stato, nel mondo una lotta permanente di stati.

Ma chi si è posto contro la posizione liberale, se non il socialismo? Da dove è partita la crisi del liberalismo e, quindi, del laicismo e, quindi, dello Stato, se non dal socialismo? È il socialismo che ha negato l’universalità dei cittadini nella classe, che ha negato la nazione nell’internazionale, che ha negato la gara fra i popoli nel cosmopolitismo. È il socialismo che ha dissolto la lotta politica in quella economica che ha risolto lo Stato nella società.

Non a caso l’unico vero socialismo è apparso essere a un certo momento il sindacalismo, che distruggeva la stessa pregiudiziale politica, lo stesso movimento politico e incentrava tutto nella pregiudiziale e nel movimento economico, eludendo quindi il problema dello Stato.

Pochi si sono accorti che la crisi del laicismo parte di là, dalla dissoluzione dell’idea di Stato operata dal socialismo e dal sindacalismo, dalle stesse estreme correnti laiche. E pochi si sono accorti che l’intervento del cattolicesimo nella vita sociale, e non solo in Italia, ha coinciso proprio col momento in cui la crisi del socialismo politico dava vita alla nascita del sindacalismo economico. Ed è logico: una volta che la lotta sociale, perdendo il sottinteso liberale che aveva finché mirava alla conquista del potere politico, si trasformava in lotta economica, ecco che la Chiesa non aveva più alcuna pregiudiziale da opporle, e anzi diveniva suo essenziale interesse orientarla e guidarla, imprimendole, per quanto possibile, il suo carattere ideale.

Di qui la nascita di quel «socialismo cristiano» che contraddice alle premesse del laicismo. Di qui la grande funzione del Papato moderno, chiamato alla più alta missione sociale di tutta la sua storia.

Il socialismo umanistico, visto in questa prospettiva, non avrebbe avuto altro fine che quello di costituire lo strumento, pur inconsapevole, del cristianesimo. Opponendosi al liberalismo, distruggendo l’idea dello Stato, il socialismo ha riportato l’accento sulla «società». Ma è appunto sulla società che si fonda il socialismo cristiano; è in funzione della società che si articola il sindacalismo cristiano; è in vista della società, che si ricerca un equilibrio sociale cristiano, compatibile col limite insuperabile della condizione umana.

Certo il cristianesimo, a differenza dei socialismi laici, non potrà mai ignorare, anche nella vita sociale, il problema del male. La questione sociale, per il vero credente, non può essere neppur pensata al di fuori dell’idea del peccato originale. Agli occhi di un cristiano, la persona conterà sempre più della classe; la carità più della giustizia; l’equità più dell’eguaglianza.

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