Mazzini profeta (1949)

di Giovanni Spadolini – «Il Giornale di Trieste», 9 giugno 1949

Le recenti celebrazioni mazziniane acquisteranno un valore e un significato storico, solo se serviranno agli italiani a intendere l’esatta portata del pensiero del grande apostolo del Risorgimento. Nessun monumento, nessuna commemorazione ufficiale, nessun atto di omaggio dello Stato o del Governo potranno costituire la necessità, per gli italiani, di approfondire il più potente messaggio spirituale e politico della loro storia recente. Non vi è problema, non vi è aspetto della nostra vita nazionale che non sia stato da lui anticipato, intuito, divinato: tutte le diverse fasi della nostra esistenza unitaria, dalle origini fino ad oggi, hanno trovato in lui il profeta, l’ammonitore, il giudice, l’oppositore od il critico più appassionato e più sicuro.

Mazzini, che fu sempre contraddetto e smentito dalle esperienze del suo tempo, Mazzini, che operò e lottò in vista di soluzioni politiche estranee od avverse al suo spirito, e al suo orientamento ideale, Mazzini, che non trovò nella realtà degli italiani alcun conforto o alcuna conferma alle sue tesi, ha proteso la sua ombra su tutta la vita della Nazione, ha proiettato la sua luce su tutta la storia italiana del Risorgimento ad oggi. Dopo aver gravato come un rimprovero e un ammonimento continuo sulla Monarchia, che aveva esaurito nel compromesso diplomatico le forze delle sue pregiudiziali religiose, egli rappresenta, per la Repubblica di oggi, un impegno, un richiamo così grave, così perentorio che nessuno potrebbe sottrarvisi, neppure fra coloro che sono insuperabilmente lontani dalle sue concezioni ideali.

Per la ricchezza, la varietà, la stessa contraddittorietà del suo pensiero, poté esser sfruttato da tutte le correnti politiche dominanti: ma la sua dottrina, che si connette a una intuizione della coscienza, a una mistica religiosa, non ha subito le conseguenze di amori troppo effimeri o di odi troppo insensati. Dopo tante vicende, dopo tante esperienze nazionali amare e ammonitrici, importa stabilire oggi ciò che è morto e ciò che è vivo di lui, la realtà del pensiero e dell’azione mazziniana, che sfugge a tutte le astrazioni degli intellettuali e a tutte le polemiche dei partiti.

Cosa c’era di caduco nel mazzinianesimo? Quel riflettere gli atteggiamenti più estremi della «Weltanschauung» massonica, di quella visione della vita che si era formata nel Settecento e che era tutta intrisa e compenetrata di umanitarismo, di egualitarismo, dei principi della pace, della giustizia, della fratellanza, della armonia e del progresso universale. E cosa c’era di ingenuo nel Mazzini? Quel dipingere il popolo come «profeta della rivoluzione», quell’affermare il nesso fra Dio e popolo, quell’insistere su un’impossibile «iniziativa popolare», quell’illusione, quella fissazione, quella passione «popolaresca» che mai egli perse nonostante le delusioni del ’48 e le smentite del ’59. E cosa c’era di retorico? Quell’inseguire il mito della «terza Roma»; e anzi assegnare alla terza Roma quale «mente della terra», «verbo di Dio fra le razze», centro della religione dell’umanità, il compito di unificare tutte le genti disperse d’Europa e d’America sotto un sol segno comune.

È quanto di derivato dalle dottrine straniere od antiche? A chi guardi il volto complesso e composto del mazzinianesimo, non sfuggiranno i sedimenti del gioachimismo, i ricordi delle eresie medievali, i residui della Riforma, le tracce del giansenismo, le influenze di Saint-Simon, le ripercussioni di Lamennais, i riflessi del Quinet o del Vinet; le risonanze del socialismo utopistico. Qual è dunque la ragione dell’attuale e forse immortale vitalità del pensiero di Mazzini? Mazzini è in primo luogo l’unico grande riformatore religioso che l’Italia abbia avuto dopo Savonarola. In quel moto, a carattere essenzialmente politico-diplomatico, che fu il Risorgimento, egli portò un lievito, un fermento, un tormento religioso, che danno alla rinascita italiana un significato che non ebbe nessun altro movimento nazionale europeo. In un Paese, che non aveva più sentito un’esigenza profonda di religiosità civile, laica, umanistica dalla Controriforma in là, il pensiero mazziniano rappresentava, con l’affermazione dell’unità fra politica e morale, del nesso fra Stato e Chiesa, del vincolo fra democrazia e religione, l’affermazione solenne della necessità di un rinnovamento delle coscienze di un’interiore «metanoia» prima ancora d’una riforma delle strutture sociali o politiche.

In secondo luogo, Mazzini è il creatore del mito operante dell’unità. L’unità in Italia non era una realtà geografica, non era un’eredità storica, non era una vocazione nazionale. L’Italia era il Paese delle città e dei comuni; l’Italia era il popolo delle infinite rivoluzioni federali, e nel ’48 ne aveva vissuto l’ultima e più grandiosa; l’Italia era la terra che aveva sempre ondeggiato fra una realtà municipale e una destinazione universale, fra un presente di provincia e una meta di impero; l’Italia era infine la sede del Papato, cioè dell’organismo più universale della storia, e non solo la sede, quanto il cuore, il centro, il fulcro stesso del pontificato romano.

Mazzini riuscì a dare a questo popolo l’illusione dell’unità; riuscì a infondere nelle sue classi dirigenti il sogno, la speranza, il desiderio dell’unità.

Il «mito» unitario non era per Mazzini limitato al fatto nazionale. Egli voleva l’unità fra gli italiani, in quanto fosse a sua volta principio e premessa dell’unità fra popolo e Stato, fra Stato e Chiesa, fra terra e cielo. Unità nazionale d’Italia; unità internazionale d’Europa; unità universale del mondo, unico dogma quello del progresso; unica religione quella dello spirito; unica educazione quella del vero; unico Stato quello ispirato alla democrazia e alla giustizia. L’«unità», ecco la grande forza di Mazzini. In un Paese tendente alla molteplicità, alla diversità, alla discordia, Mazzini gettava questo seme di unità, e lo consacrava col sangue dei martiri. Se si è potuto celebrare il ’48 come rivoluzione nazionale, lo si deve a lui, non certo a principi e ai granduchi, in onore dei quali si sono organizzate le varie e inutili mostre commemorative.

Essendo unitario, Mazzini non poteva essere, non fu mai un liberale nel senso proprio della parola. È l’ultimo equivoco che bisogna dissipare.

La visione del liberalismo moderno era per Mazzini il prodotto complessivo dell’individualismo, dell’utilitarismo e del materialismo: tutto ciò a cui bisognava opporsi nella fondazione della nuova società. Se il liberalismo rappresentava la concezione dei diritti individuali rispetto ai doveri dello Stato, Mazzini vagheggiava una concezione in cui fossero ben stabiliti i doveri «individuali» rispetto ai diritti dello Stato. Se il liberalismo era laicismo, religione della laicità, Mazzini sognava uno «Stato teocratico», ove fossero «sacerdoti tutti con uffizi diversi». Se il liberalismo era immanentismo, Mazzini sognava una trascendenza, sia pur diversa da quella cattolica. Se il liberalismo era umanesimo, Mazzini auspicava una rivoluzione divina, che si attuasse attraverso «geni angeli di Dio sulla terra» e «i popoli profeti di Dio in terra».

Se il liberalismo insomma era dialettica, dialettica di forze e di idee, di istituti e di uomini, libertà d’iniziative e senso di autonomia, capacità all’autogoverno e vigore d’individuale creazione, Mazzini era invece per la riduzione a unità delle forze e delle idee, degli istituti e degli uomini, per il controllo delle iniziative e la subordinazione dell’autonomia personale alla Nazione e allo Stato, per l’educazione impartita dall’alto e secondo uno schema unitario, e infine per l’opera sociale, lo sforzo collettivo, l’azione dei molti, l’associazione.

Con l’opporsi alla distinzione della politica e della morale, col negare ogni valore agli schemi della democrazia costituzionale e parlamentare, che rappresentava la forma politica concreta nata dalle ceneri della grande rivoluzione, con lo smentire ogni dualismo nel pensiero come nella realtà, conciliando i contrasti e sopprimendo le antitesi in una poderosa «teologia», Mazzini si richiamava piuttosto a una singolare forma di «democrazia religiosa». Piuttosto che un «politico», fu dunque un anticipatore, un apostolo, un profeta: e io non conosco nella storia un apostolo e un profeta che sia mai stato liberale.

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