L’influsso rivoluzionario di Mazzini in Europa

di Rosario Romeo – “Nuova Antologia”, a. CXXII, fasc. 2161, gennaio-marzo 1987, Le Monnier, Firenze.

Gli opposti giudizi sull’opera di Giuseppe Mazzini che già divisero i contemporanei si riflettono, in certa misura, anche nella storiografia successiva.

Per alcuni, egli fu il profeta di una nuova era e di una nuova religione, il pensatore che meglio e più completamente di ogni altro seppe cogliere il senso e i valori dell’Europa delle nazionalità.

Ad altri le sue dottrine sono invece apparse prive di ogni originalità, coacervo incoerente di elementi diffusi in tutta la cultura dell’epoca romantica, che egli si ostinò a riaffermare anche quando l’Europa positivistica della seconda metà del secolo li aveva in gran parte abbandonati.

Da un lato, al rivoluzionario instancabile che per oltre quarant’anni ordì le sue cospirazioni sempre rinnovate contro i poteri costituiti si è attribuito, come già fecero Metternich e i sostenitori dell’ordine sancito dai trattati di Vienna, il ruolo di maggiore e più pericoloso avversario dell’Europa dei re, largamente responsabile della sua crisi e del suo crollo finale; dall’altro, si è messa in rilievo la debole consistenza delle trame mazziniane, la modesta dimensione delle forze da lui messe in movimento, il fallimento sanguinoso dei suoi tentativi di insurrezione[1].

In questa come in altre questioni storiografiche è probabile che il dissenso derivi in buona parte dall’unilaterale rilievo che molte analisi attribuiscono ad alcuni aspetti della realtà, certo importanti e sostenuti da valide prove, ma che tuttavia acquistano la loro giusta luce solo in un contesto che spesso viene invece trascurato. In questo studio si cercherà dunque di mettere in rilievo i nessi interni di tale contesto, tentando di evitare la facile giustapposizione di elementi diversi e di individuare invece relazioni logiche e dotate di valore esplicativo, nel senso in cui questa espressione può avere legittimità in sede storiografica.

1. Sulla scarsa originalità del pensiero mazziniano è ormai rimasto poco da disputare. Mazzini non ebbe mai interessi specificatamente filosofici, sul terreno decisivo della teoria della conoscenza.

Si appropriò invece di un vasto apparato di dottrine pratiche, ed essenzialmente morali e politiche, le cui fonti sono state attentamente individuate all’interno della cultura romantica dominante negli anni venti e trenta, da Manzoni, Foscolo e Vico (letto attraverso la traduzione di Michelet) a Goethe, Schiller, Schlegel e Herder (tradotto da Quinet), da Byron ai liberali e democratico-socialisti francesi, da Guizot e Cousin fino a Buonarroti, ai sansimoniani, Pierre Leroux, Fourier e George Sand.

Il nuovo valore attribuito alle nazioni, ciascuna portatrice di una sua specifica missione, era, dopo la Rivoluzione e la riscoperta del significato della storia in polemica col razionalismo settecentesco, uno degli indirizzi fondamentali del nuovo pensiero e della nuova sensibilità, insieme con l’attesa di un’era ispirata a una nuova religiosità, che avrebbe preso il posto del Cristianesimo ormai esaurito e assicurato il trionfo dei valori spirituali e collettivi sull’individualismo materialistico del XVIII secolo, gettando così le basi di una nuova autorità.

Tutto questo nell’atmosfera di un fervore morale simboleggiato dal nesso inscindibile fra pensiero e azione, che Mazzini riconoscerà di avere fin dall’inizio appreso e ammirato negli uomini della Carboneria e nei sansimoniani, che gli parvero “libri viventi, e non semplici pensatori”[2]. Ma su questo sfondo l’esperienza dei primi anni di impegno politico farà nascere in Mazzini la convinzione che l’iniziativa rivoluzionaria in Europa era ormai sfuggita alla Francia, e che dunque spettava ad altri, e in particolare all’Italia, di assumerla e farsene portatrice.

La delusione seguita alle grandi attese suscitate dalla Rivoluzione di luglio, che ai liberali di tutta Europa era sembrata il segnale di una ripresa della marcia liberatrice delle armate francesi e che invece era sboccata nella monarchia borghese e rinunciataria di Luigi Filippo e nell’abbandono della Polonia insorta, si sommava, in uomini come Mazzini, alle delusioni anche più amare seguite ai moti italiani del 1831. Riponendo ogni speranza nell’appoggio francese, i governi provvisori di Bologna e delle altre città insorte avevano evitato di mobilitare i ceti popolari, per poi cedere senza resistenza all’invasore austriaco: quando, a giudizio dei rivoluzionari più decisi, si sarebbero dovute bruciare le città e continuare la lotta sui monti e nelle campagne, dove la guerriglia popolare sarebbe stata invincibile[3].

Se dunque fra il maggio e il giugno 1831, nella celebre lettera aperta a Carlo Alberto, Mazzini faceva ancora cenno alla imminente ripresa della spinta rivoluzionaria in Francia, qualche anno dopo la polemica sulla funzione di Parigi, nella quale egli si rifiutava di riconoscere il cervello del mondo e il motore della rivoluzione europea, fu uno dei motivi fondamentali della sua rottura con Buonarroti e con l’Alta Vendita della Carboneria.

Del resto, già nel 1831, insieme con Domenico Nicolai e con Carlo Bianco di Saint-Jorioz, Mazzini aveva rivolto un Appello agli italiani in cui essi venivano chiamati alla “guerra nazionale”, e si affermava che “l’albero della libertà non getta profonde radici… se da cittadino sangue non è fecondato”, e che “la libertà della patria è dono della risorta dignità italiana”[4]. Attraverso le polemiche degli anni che videro la fondazione della “Giovine Italia” (maggio-giugno 1831) e della “Giovine Europa” (15 aprile 1834), queste posizioni mazziniane, consolidate dal giudizio negativo sui falliti tentativi insurrezionali francesi di quel periodo, presero la forma definitiva che sarà espressa nell’articolo De l’initiative révolutionnaire en Europe apparso nella “Revue républicaine” del gennaio 1835.

La rivoluzione francese, affermava Mazzini, aveva chiuso un’epoca, l’epoca dell’individualità e dei diritti. L’età nuova sarebbe stata invece l’epoca dell’umanità e del dovere, destinata a realizzarsi per opera delle nazionalità, stadio superiore al vecchio cosmopolitismo settecentesco.

La Francia aveva dunque perduto la sua funzione iniziatrice, che sarebbe spettata d’ora in avanti al popolo o ai popoli più capaci di avvertire i bisogni e di esprimere il significato della nuova era di progresso attesa dall’umanità. Di conseguenza, scriveva Mazzini, “il progresso attuale per i popoli sta nell’emanciparsi dalla Francia; il progresso attuale per la Francia sta nell’emanciparsi dal XVIII secolo e dalla sua rivoluzione”. Il che, precisava, non significava “reagire” contro la Francia; ma piuttosto “convincersi che… il potere d’iniziativa si è spostato; che esso è dovunque e appartiene solo alla fede e all’azione”. Si doveva dunque “studiare la Francia, ma senza rinnegare ogni spontaneità, ogni indipendenza… senza condannarsi a una vergognosa e cieca passività”[5]. Occorre aver chiaro il nesso, di straordinaria importanza, fra questo giudizio e gli imperativi morali e politici che ne derivavano. Se l’iniziativa rivoluzionaria non spettava più alla Francia, ciascun popolo aveva il diritto e il dovere di raccoglierla per dare in tal modo un nuovo impulso al progresso di tutta l’umanità. L’unità di pensiero e azione si poneva come dovere morale e politico per tutti e per ciascuno; la passiva attesa dall’aiuto francese non aveva più alcuna giustificazione; e in tal modo ogni nazionalità era in grado di conquistare la propria indipendenza politica e ideale, che doveva essere indipendenza anche e soprattutto dalla Francia, perché la nuova Europa democratica e repubblicana come non ammetteva più un “uomo-re”, così non ammetteva un “popolo-re”.

Diffusa in ogni popolo e in tutta Europa la missione dell’iniziativa rivoluzionaria acquistava in tal modo una imperatività morale che era invece mancata ai tentativi isolati e sconnessi della vecchia Carboneria. Su questi insisteva con estrema chiarezza l’ “Atto di fratellanza” della “Giovine Europa”: “ad ogni uomo, e ad ogni Popolo spetta una missione particolare, la quale, mentre costituisce la individualità di quell’uomo, o di quel Popolo, concorre necessariamente al compimento della missione generale dell’Umanità”. La missione di ciascun popolo, precisa lo “Statuto” della stessa associazione, “costituisce la sua Nazionalità. La Nazionalità è sacra”[6].

Dopo le due guerre mondiali si è talora discusso, e non solo in Italia, sui caratteri propri della dottrina mazziniana delle nazionalità. In polemica dapprima contro l’interpretazione “imperialistica” di Giovanni Gentile, massimo filosofo del fascismo, e poi contro le dottrine razzistiche del nazionalsocialismo, si è insistito sulla solidarietà che il rivoluzionario genovese vedeva nella causa di tutte le nazioni, e in particolare sulla preminenza che egli attribuiva ai fattori spirituali della coscienza e della missione nazionale in confronto agli elementi “naturalistici” della identità di stirpe, di lingua, di tradizioni e di storia: così che la sua dottrina sarebbe da accostare alla teoria di Ernest Renan sulla nazione come “plebiscito di ogni giorno”, piuttosto che al pensiero tedesco, di derivazione soprattutto herderiana, che nella nazione vede una manifestazione della spontaneità creativa della vita e della natura, quale si realizza nelle diverse espressioni di ogni individualità nazionale.

Ma la questione non ha molto fondamento. Uomo del suo tempo, spiritualista e romantico, Mazzini non fece mai posto alla dottrina rousseauiana della nazionalità come proiezione dei diritti di libertà propri di ciascun individuo; così come non prese parte alle polemiche francesi seguite all’annessione dell’Alsazia-Lorena nel 1871.

Per lui, l’appartenenza alla nazione italiana di tutti coloro che vivevano al di qua del cerchio superiore delle Alpi, dalle foci del Varo a occidente sino a un limite orientale che talora collocò a Trieste e talora estese a tutta l’Istria, oltre che alle isole di lingua italiana, non fu mai cosa che potesse esser messa in discussione senza delitto di lesa-patria. Certo, affermò più volte che senza coscienza nazionale non v’è “nazione” ma “gente”[7]: ma si trattava di esortazioni politiche e morali, non di definizioni a carattere storico e descrittivo. Egli poteva dunque asserire che gli italiani, come qualunque altro popolo, erano “gente” e non “nazione” fino a quando erano privi di libertà: ma non ebbe mai dubbi, com’è chiaro, che appunto dall’essere nazione derivava agli abitanti della penisola il diritto e il dovere di battersi per la propria libertà.

La negazione del diritto d’iniziativa alla patria della Grande Rivoluzione non passò, naturalmente, senza contrasto in terra di Francia. Già in occasione dell’articolo sopra ricordato di Mazzini sulla Initiative révolutionnaire en Europe, uno dei direttori della “Revue républicaine”, Jean-François Dupont de Bussac, lo fece precedere da una avvertenza nella quale rivendicava alla Francia un diritto di iniziativa nascente non già da pretese di supremazia ma dalla forza che essa sola possedeva e che mancava invece ad altri popoli, come dimostrava l’insuccesso degli ultimi moti nazionali[8]. La stessa convinzione esprime Louis Blanc nella Histoire de dix ans[9], e il contrasto su questo punto, e sul materialismo rimproverato da Mazzini ai socialisti francesi condusse, dopo il 1848, a una totale rottura.

La maggioranza dei democratici e socialisti francesi – con la parziale eccezione di Ledru-Rollin – restava infatti fedele all’eredità del secolo XVIII, individualista all’origine ma resa universale dal messaggio della Rivoluzione francese. Ciò non significa, come pure si è sostenuto, che lo spiritualismo romantico di Mazzini dopo il 1830 apparisse già antiquato in Francia[10], dove invece correnti analoghe continuarono ad avere gran posto fin oltre la metà del secolo. Ma anche i democratici francesi di formazione romantica rifiutavano il giudizio mazziniano sulla fine della missione francese.

Un posto a parte va poi riservato alla polemica antimazziniana di Proudhon, persuaso che lo Stato nazionale era espressione di interessi antipopolari e strumento di sopraffazione, oltre che ostacolo a quel rinnovamento liberatorio e federalistico che solo poteva garantire alla Francia e agli altri paesi i benefici del socialismo e della pace[11].

Nell’unità italiana auspicata da Mazzini Proudhon vedeva anche una punta antifrancese[12]; e di ciò era anche convinto Auguste Blanqui[13]. Alcuni anni più tardi, quando, nel gennaio 1861, sembrava imminente un attacco italiano nel Veneto, tre esponenti tedeschi, e cioè il noto socialista conservatore Carl Rodbertus-Jagetzow, l’ecclesiastico Philip von Berg e il democratico Lothar Bucher, pubblicarono una dichiarazione nella quale, difendendo l’interesse tedesco a conservare il Veneto all’Austria, si rimproverava a Mazzini di essere mosso da ambizioni nazionalistiche, in relazione alla missione universale ch’egli attribuiva alla nuova Italia come “Terza Roma”[14]. Mazzini replicò affermando che gli pareva di potere senza colpa coltivare quella idea, nel nome di un paese che, solo in Europa, subiva al tempo stesso l’oppressione materiale degli Asburgo e quella spirituale del Pontefice. Da parte sua, egli invitava i tedeschi a tentare anch’essi di assolvere una analoga missione. “Afferrate – scriveva – l’iniziativa morale che voi m’accusate di volere per la mia patria: noi v’applaudiremo con entusiasmo: vi seguiremo sulla bella via: compiremo grandi cose con voi. L’emulazione è il segreto della grandezza dei popoli”; e concludeva: “io sono italiano, ma uomo ed Europeo ad un tempo. Adoro la mia patria perché adoro al Patria; la nostra libertà perch’io credo nella Libertà; i nostri diritti perché credo nel Diritto”[15].

Non v’è motivo di dubitare della sincerità di queste parole, confermate dalla mai smentita fedeltà di Mazzini all’idea di una sola e concorde civiltà europea, a partire dagli scrittori letterari anteriori al 1830 sino all’ultimo richiamo agli “Stati Uniti d’Europa” nel 1871, alla vigilia della morte.

Piuttosto, si potrà avvertire che l’umanità di Mazzini è una umanità essenzialmente europea, e che per lui gli altri continenti restavano essenzialmente oggetto della missione civilizzatrice dell’Europa (anche se al suo nome si sono poi richiamati alcuni dei maggiori leader del Terzo Mondo, a cominciare da Gandhi)[16].

Ma la questione, assai delicata, dei rapporti fra il principio di nazionalità predicato da uomini come Mazzini e i nazionalismi del XX secolo non può essere risolta in termini di buona fede soggettiva. Occorre fare riferimento, per questo, a ciò che il principio di nazionalità significò nella realtà del suo tempo, e all’eredità che esso lasciò all’epoca successiva.

2. Se, per Mazzini, le nazioni erano destinate ad essere protagoniste del nuovo avvenire europeo, i maggiori ostacoli sul suo cammino erano invece i grandi imperi multinazionali: l’impero turco e, soprattutto, l’impero asburgico. “L’Austria – scriveva già nel 1832 – è un ostacolo al moto dell’incivilimento, al progresso, all’associazione europea. Conviene distruggerlo, o rassegnarsi a rinnegare nazionalità, potenza, fama, libertà, indipendenza”[17]. Al posto dell’Austria, e in genere al posto dell’Europa creata dai trattati di Vienna, egli auspicava un ordine internazionale diverso, che nella sua visione rimase costante nelle sue linee fondamentali, pur con non poche variazioni di particolari. Alla Francia, ormai “diseredata” della sua missione, e anzi temuta, dopo il 1851, per le rinnovate ambizioni imperiali, nessuna speciale funzione era riservata sulla scena europea; e altrettanto Mazzini pensava dell’Inghilterra, dove acquistò, attraverso la “English Republic” di William Linton, una certa influenza sull’ala repubblicana del cartismo[18], e che negli anni del lungo esilio amò come seconda patria, ma di cui gli restò sempre estraneo lo spirito analitico ed empirico. Proiettata verso il commercio mondiale e le colonie, l’Inghilterra imperiale “nulla rappresenta[va] nel sistema europeo” (1834)[19]. Nella penisola iberica vedeva opportuna e forse probabile l’unione di Spagna e Portogallo.

Ma “la parola dell’epoca nuova” era riservata alla Polonia, alla Germania e all’Italia, intorno alle quali si sarebbero unite, rispettivamente, le razze slave, germaniche e latine. Questi tre paesi erano infatti le maggiori vittime “della miseria, dell’oppressione straniera e domestica, della mancanza assoluta di ogni diritto nazionale, dell’assenza di ogni sviluppo intellettuale e industriale”; ed erano dunque i paesi da cui era più fondato attendersi una guerra d’insurrezione, violenta, generale, repubblicana, “la guerra santa degli oppressi”, al di fuori di tutte le illusioni del progresso graduale e moderno[20]. E su queste tre nazionalità fu infatti imperniata, com’è noto, la “Giovine Europa”.

Fra i grandi corpi delle maggiori nazionalità c’era poi il vario mondo delle nazionalità minori, talora insediate sul medesimo territorio, e tuttavia diverse per lingua, cultura e tradizioni. A Mazzini parve che una soluzione ai problemi di questi paesi venisse offerta dal modello elvetico, che aveva imparato a conoscere assai presto, grazie al lungo soggiorno in Svizzera negli anni stessi della fondazione della “Giovine Europa”.

Non che la Confederazione quale era uscita dal congresso di Vienna, con i suoi cantoni aristocratici, il suo federalismo, la sua vocazione alla neutralità, potesse incontrare i favori di un uomo del suo stampo, democratico, assertore dell’unità come fonte indispensabile della forza necessaria a ogni vita nazionale, persuaso che la neutralità nella grande lotta fra l’alleanza dei re e quella dei popoli fosse una posizione essenzialmente immorale. Ma una volta rinnovata su basi popolari la Confederazione elvetica poteva costituire il nucleo di una più grande Confederazione delle Alpi, che avrebbe compreso anche la Savoia, il Tirolo, la Carinzia e la Carniola, sulla base di una affinità di ambiente che poteva in questo caso sostituire l’unità linguistica e storico-culturale.

E v’era poi il grande mondo slavo, da cui Mazzini si attendeva, sulla scia di Herder, che scaturissero nell’avvenire le energie destinate a infondere nuova vita alla civiltà europea. Il compito di aggregarne intorno a sé la parte maggiore spettava, come si è detto, alla Polonia, nazione martire più di ogni altra, mentre alla Russia era assegnato di estendere all’Asia l’influenza europea. Quanto al resto dell’Europa centro-orientale Mazzini pensò talora all’unione di Boemia e Moravia con la Slovacchia e l’Ungheria, mentre in altre occasioni gli parve di intravvedere la possibilità di un’Ungheria congiunta alle province moldo-valacche, in una confederazione danubiana forse estesa anche a Boemia e Moravia, e altre volte propose invece che l’Ungheria si associasse gli Slavi del sud, ovvero che costoro si ordinassero in separata confederazione[21].

È facile vedere in queste proposte un implicito riconoscimento, da parte di un così acerrimo nemico, della funzione svolta in quelle regioni dalla monarchia asburgica, alla quale egli cercare di sostituire una soluzione in fondo non troppo diversa. Si è anche rimproverato alle soluzioni mazziniane un eccessivo semplicismo, che non teneva sufficientemente conto delle complesse realtà etniche e nazionali dell’Europa centro-orientale. Ma va anche messo in rilievo che il rivoluzionario genovese fu sempre contrario a determinazioni troppo precise, che potevano suscitare seri conflitti fra le diverse componenti nazionali quando ancora durava il dominio asburgico. Una volta vincitori, i liberi popoli avrebbero invece trovato quelle soluzioni pacifiche e concordate che erano state finora impedite dai dominatori, veri beneficiari dei “nazionalismi” (la parola è dello stesso Mazzini) che in passato avevano diviso l’Europa. Va anche considerato che non di rado le soluzioni prospettate da Mazzini erano suggerite dalla mutevole realtà politica, come nel caso, soprattutto importante, dei rapporti fra magiari e nazionalità slave comprese nel vecchio Regno di Ungheria.

Un nemico specialmente pericoloso parve poi a Mazzini l’austroslavismo. Quando, ad esempio, nel 1842 l’esponente boemo Leo Thun contrappose a chi denunciava i pericoli del panslavismo l’ipotesi di un’evoluzione federale dell’impero asburgico, che avrebbe dato un giusto peso alle popolazioni slave della Monarchia, Mazzini lo accusò di isolare la causa dei Cechi da quella comune a tutti i popoli slavi, unendo la sua condanna al rifiuto opposto per conto dei polacchi da Michiewicz[22]. La minaccia più grave stava infatti per Mazzini nel tentativo di infondere nell’impero asburgico le fresche energie provenienti dai moti nazionali. Dopo il 1851 egli vedrà un pericolo analogo nella politica delle nazionalità di Napoleone III, che appunto per questo gli apparirà fino a Sedan il maggiore avversario della causa dei popoli.

In che misura si realizzò la prospettiva mazziniana di un superamento delle vecchie e nuove rivalità nazionali, almeno nell’ambito del movimento rivoluzionario europeo ch’egli cercava di promuovere? È noto che frizioni, e sospetti di voler utilizzare l’emigrazione polacca e tedesca in funzione degli interessi italiani, si rivolsero contro Mazzini già al tempo della spedizione di Savoia, nel 1834.

Per esempio, dubbi di questo tipo ebbero una parte considerevole nelle esitazioni di Hermann Rauschenplatt, assai influente fra gli emigrati tedeschi in Svizzera, al tempo della fondazione della “Giovine Europa”. Posizioni analoghe si registrarono allora da parte di Joachim Lelewel, massimo esponente della emigrazione polacca, e di Walerian Zwierkowski, che godeva di grande prestigio fra polacchi rifugiati a Parigi. Lelewel, in particolare, temeva che i dirigenti della Giovine Polonia finissero per sentirsi più vicini alle “nevi delle Alpi” e alle “acque del Reno” che non ai problemi della patria, e denunciava il pericolo di una dipendenza troppo stretta dai “pellegrini sabaudi”, dominanti, con Mazzini, nella direzione della Giovine Europa. Nonostante ciò Lelewel finì poi per entrare nella Giovine Polonia, e tentò di impegnarla maggiormente sui problemi interni polacchi collegandola con l’Unione dei Figli del Popolo Polacco e con l’Associazione del Popolo Polacco, che includevano nel loro programma la battaglia per la terra ai contadini: ma l’organizzazione finì per naufragare proprio su questo punto dopo l’unione con la Confederazione del Popolo Polacco, che in materia si proponeva un’azione assai più radicale e immediata[23].

Anche all’interno della Giovine Germania le accuse di elitarismo e di infeudamento a Mazzini limitarono dapprima l’influenza dell’organizzazione alla Svizzera francese e alla zona di Berna. Solo in un secondo tempo i Giovani Tedeschi cominciarono a raccogliere adesioni fra gli emigrati a Zurigo, mentre la diffusione della organizzazione restò sempre assai modesta all’interno della Germania, dove nel gennaio 1836 contava solo 19 iscritti. Nella stessa Svizzera, del resto, gli aderenti alla “Giovine Germania” non sembrano aver mai superato il numero di 268, anche dopo l’azione intrapresa per diffonderla fra gli artigiani, assai numerosi nell’ambiente degli emigrati. Analogamente alle altre organizzazioni nazionali che facevano capo alla “Giovine Europa”, la “Giovine Germania” evitava infatti di insistere sui temi sociali, così da provocare la polemica di organizzazioni come il Bund der Geachteten, per il quale l’organizzazione mazziniana era troppo esclusivamente politica e borghese.

A parte le critiche ricorrenti a Mazzini e agli italiani, che Gustav Kombst giudicava “i meno pratici fra tutti i rivoluzionari”, l’azione della “Giovine Germania” fra gli operai sembrava destinata a restare scarsamente efficace, fino a quando veniva affidata soprattutto a studenti, troppo pedanti e lontani dal mondo dei lavoratori. La collaborazione con gli italiani, nel nome dei superiori ideali di unione e di umanità, trovò tuttavia difensori tenaci in uomini come Eduard Scriba ed Ernest Schuler; ma nel 1837 le persecuzioni poliziesche che colpirono la “Giovine Europa” in seguito alle pressioni esercitate sulla Svizzera dalle grandi potenze portarono di fatto alla fine dell’organizzazione[24]. In seguito, i movimenti nazionali italiano e tedesco proseguirono su vie separate, e i loro contatti furono piuttosto occasionali, come quelli fra Mazzini e i “Gottinger Sieben” al tempo della loro resistenza al re di Hannover in nome delle libertà costituzionali[25]. Tuttavia, anche nell’assemblea della Paulskirche l’idea herderiana e mazziniana della nazionalità trovò difensori in uomini della sinistra, e in particolare il deputato Nauwerck sostenne la causa italiana in termini largamente mazziniani: “Dovunque – dichiarò – io riconosco il diritto e il carattere sacro della nazionalità, e non mi smentisco quando si tratta di altri popoli: auspico che quel diritto sia riconosciuto a ciascuno, poiché tutti i popoli sono fratelli del popolo tedesco”. E concluse: “l’Italia dev’essere libera: per se stessa, per l’Austria, per la Germania, e da ultimo anche per l’Europa”[26]. La discussione riprese su scala assai più larga e con tensione forse maggiore nel biennio 1859-61: anche allora, se i cattolici e i conservatori sollecitavano il governo di Berlino a schierarsi a fianco dell’Austria cattolica e conservatrice, i liberali mettevano invece l’accento sugli interessi tedeschi a sud delle Alpi, che avevano gran peso anche per un democratico assai vicino a Mazzini come Karl Blind[27]. Il grosso della sinistra democratica tedesca rimase comunque persuaso della necessaria solidarietà dei popoli italiano e tedesco contro la doppia minaccia asburgica e napoleonica. Tralasciando questi temi, che cadono fuori del quadro assegnato alla presente relazione, mi limiterò tuttavia a ricordare che alla solidarietà della causa italiana e tedesca anche Mazzini credette sino alla fine, e che dopo la guerra del 1871, quando tanta parte della democrazia europea volgeva le sue simpatie alla Francia repubblicana, egli mise in rilievo i diritti della Germania aggredita e, pur condannando la monarchia prussiana, polemizzò contro chi già evocava lo spettro del predominio teutonico in Europa[28].

Sorte analoga a quella della “Giovine Polonia” e della “Giovine Germania” ebbe la “Giovine Svizzera”. Accolto dapprima con vive simpatie dai radicali elvetici, dichiaratisi largamente disponibili a collaborare, Mazzini incontrò poi difficoltà crescenti anche su questo terreno. Sospetti di strumentalizzazione in senso italiano vennero avanzati anche dagli Svizzeri, la pubblicità del programma diede luogo a vivaci dissensi, le critiche mazziniane al federalismo e alla neutralità elvetica urtarono sentimenti diffusi e radicati in ogni strato della popolazione locale. Lo spiritualismo religioso di Mazzini suscitò aperte polemiche da parte di uomini come James Fazy, in nome di una visione più concreta e razionale degli affari politici[29].

Ma, accanto all’Italia, fu soprattutto l’Europa centro-orientale ad assorbire le energie di Mazzini nella lotta per le libere nazionalità. Oltre agli slavi, fin dal 1832-33 egli cominciò a guardare con attenzione crescente all’Ungheria. A suo giudizio essa era chiamata, insieme alla Polonia, a formare una prima barriera contro l’imperialismo russo, sostenuta in seconda schiera dalla Germania e in terza dalle nazioni latine. Non che gli sfuggisse la struttura feudale della società ungherese, dove popolo, borghesia e contadini non erano considerati, scriveva, “elemento della Costituzione”, e dove “il clero e il patriziato sono onnipossenti”; e neppure gli sfuggiva la tensione crescente fra magiari e slavi meridionali. In un primo tempo ritenne tuttavia che costoro non fossero in grado di darsi un autonomo sviluppo politico; mentre gli parevano assai più importanti le tensioni fra cechi e tedeschi[30].

A partire dal 1840 il movimento illirico cominciò tuttavia ad assumere una maggiore importanza, e nel 1843 Mazzini entrò in contatto con Frantisek Zach, inviato in Serbia dal principe Czatoryski, e forse ispirò i suoi progetti di unione intorno alla Serbia degli slavi sotto dominio turco e degli slavi meridionali dell’Austria. “Nell’impero austriaco – scriveva allora Mazzini –  si sviluppa un movimento di popolazioni Slave, a cui nessuno bada, che un giorno, unito all’opera nostra, cancellerà l’Austria dalla carta d’Europa”[31]. Negli anni successivi si sviluppò una intensa collaborazione intellettuale e politica fra italiani, dalmati e croati, nella quale ebbero una parte considerevole i fratelli Bandiera, assai vicini, allora, al Alfred Nugent, che ebbe tanta parte nell’agitazione illirica di quel periodo. Ma la scoperta delle trame ordite fra le truppe austriache in Galizia e la spedizione dei Bandiera, che Mazzini tentò in ultimo di impedire (e che diede luogo, fra l’altro, alla sua denuncia delle responsabilità del governo inglese nella violazione della sua corrispondenza, poi trasmessa agli austriaci), portarono al fallimento di quei progetti di insurrezione[32].

Qualche anno dopo Mazzini tornò tuttavia sulle prospettive del movimento slavo, di cui sostenne la lotta, nella misura del possibile, anche durante il 1848-49, favorendo, tra l’altro, la formazione di una Legione polacca in Italia. Ma il fatto dominante nell’Europa orientale fu, per lui come per ogni altro, la rivoluzione ungherese. Allora Mazzini cercò di indurre Kossuth a una transazione fra i magiari insorti e le richieste di autonomia dei popoli da secoli annessi alla Corona di Santo Stefano, Croati, Serbi della Vojvodina, Slovacchi e Rumeni della Transilvania; e anche nel 1850 chiese all’ex-capo dell’Ungheria di pronunciarsi “sulla possibilità e sulle basi generali di un patto, di una fraternizzazione fra i Magiari, gli Slavi del sud e i Moldo-Valacchi”. Le concessioni di Kossuth si limitavano però ad autonomie culturali e giuridiche per le popolazioni non magiare, e solo ai Croati lasciavano la possibilità di staccarsi dall’Ungheria, dopo la vittoria[33]. Una soluzione certo insufficiente agli occhi di Mazzini: ma la collaborazione di Kossuth in quel momento era troppo importante perché egli potesse metterla a repentaglio. Anche in seguito non rinunciò tuttavia a sostenere i movimenti nazionali dell’Europa orientale e a chiederne l’appoggio, sempre in vista dell’obiettivo ultimo, che doveva essere “non solamente vincere, ma disfare l’impero d’Austria” (1866)[34].

3. Per la realizzazione dei suoi disegni Mazzini creò il suo principale strumento politico nella “Giovine Italia”, passata attraverso crisi successive ma sempre rinata in nuove forme e con nuovi nomi, fino al partito d’azione che operò negli ultimi anni del Risorgimento. Già nel nome l’organizzazione faceva appello al tema, assai diffuso intorno al 1830, della giovinezza in lotta col vecchio mondo destinato a crollare; ed era uno strumento politico di tipo nuovo, che si differenziava dalle sette carbonare precedenti anzitutto per il rifiuto della segretezza degli obbiettivi.

Nella “Giovine Italia” il segreto era limitato alle attività cospirative dirette a preparare l’insurrezione: pubblico invece, e diffuso attraverso la stampa, i fogli volanti, la propaganda orale, il programma del movimento. A differenza della “Giovine Europa”, che per Mazzini doveva avere compiti essenzialmente educativi, le associazioni nazionali come la “Giovine Italia” e le altre analoghe dovevano tendere soprattutto all’azione insurrezionale.

Della “Giovine Italia” si è detto giustamente che fu il primo partito politico italiano di tipo moderno, con i suoi caratteri dell’adesione individuale, il finanziamento a mezzo di quote degli iscritti, l’ordinamento assai semplice e diffuso su tutto il territorio nazionale, la pubblicità del programma. Partito di “quadri”, la “Giovine Italia” inizialmente affidava solo ai soci in possesso di un certo grado di istruzione il compito di reclutare nuovi iscritti. Per ragioni di sicurezza, spiegava Mazzini: ma anche per la sua radicata convinzione che un ruolo essenziale spettava ai gruppi di avanguardia, destinati a trascinare le masse con la virtù dell’esempio e dell’iniziativa. Per conquistare il “popolo” bisognava tuttavia diffondere negli strati sociali più poveri la convinzione che “si vuole migliorare il loro stato intellettuale e morale”[35]. Da Bianco di Saint-Jorioz Mazzini aveva accolto il principio della guerra insurrezionale come guerra essenzialmente partigiana, da condurre, secondo Bianco, senza “considerazione di onore, d’umanità e di religione”[36]. Ma di fatto il fondatore della “Giovine Italia” guardò sempre alla rivoluzione nazionale come impresa comune alle classi popolari e alle classi medie, e anzi insistette sul ruolo di guida che queste dovevano necessariamente conservare. Rifiutò dunque nettamente la “guerra di classi”, “il terrorismo eretto a sistema”, la “sovversione de’ diritti legittimamente acquistati”, le “leggi agrarie”[37]. Le misure sociali da lui proposte fino al 1848 si limitavano dunque a regolare la trasmissione ereditaria dei grandi patrimoni, all’imposta progressiva e a interventi dello Stato volti a garantire migliori retribuzioni ai lavoratori. Troppo poco, agli occhi dei socialisti contemporanei, e anche della odierna storiografia, marxista e non marxista; e troppo poco soprattutto in relazione ai problemi sociali dell’Europa orientale, dove la questione della terra aveva un peso che Mazzini avvertì solo in parte e saltuariamente, così come ignorò sempre (se si toglie qualche accenno a partire dal 1869)[38] i problemi sociali delle campagne italiane.

Ciò non impedì tuttavia che le organizzazioni mazziniane penetrassero profondamente negli strati popolari di molte città dell’Italia centro-settentrionale, dove la “Giovine Italia” registrò un seguito che andava dai 3.000 affiliati che la polizia le attribuiva a Milano sino alle molte centinaia di inquisiti e arrestati nello Stato pontificio nel 1836[39]. Siamo comunque lontani dalle molte decine di migliaia di iscritti che qualche autorità di polizia attribuì nei primi anni alla “Giovine Italia”[40]; e l’ostinazione con la quale Mazzini insistette sui colpi di mano condotti da piccoli nuclei, spesso destinati a pagare la loro audacia con la vita, è sempre stata un motivo ricorrente delle critiche alla sua azione. E tuttavia, se Metternich lo qualificava “uno dei più pericolosi e attivi corifei rivoluzionari di tutta Europa” e un “nemico pericolosissimo dell’ordine sociale”[41], ciò non era frutto di vane ubbìe o di artificiose esagerazioni.

I ripetuti colpi di mano, gli attentati, le continue scoperte di armi ed esplosivi davano la sensazione che l’Italia soprattutto era avvolta da una capillare infiltrazione sovversiva in grado di agire nei momenti più imprevisti. Più che alla stregua della sua diretta capacità di promuovere i movimenti nazionali in altri paesi l’efficacia europea del programma di Mazzini va dunque commisurata al valore di modello assunto anche altrove dall’azione rivoluzionaria da lui ispirata e diretta in Italia, e dal contributo di primo piano che certamente essa diede, sia pure attraverso duri contrasti, al finale trionfo della causa nazionale nella penisola. E poi, la implacabile volontà di lotta di colui che, come disse Cattaneo, “considerava vittorie anche le sconfitte, purché si combattesse”, dava ai patrioti la sensazione di una invincibile presenza, che col tempo assunse caratteri di mito, diffondeva l’aspirazione a vendicare i caduti e ad imitarne le gesta, stimolava la formazione di sempre nuovi gruppi di avangiardia.

La grande illusione di Mazzini fu certo la dogmatica certezza con cui sempre credette che i popoli attendessero solo un segnale per esplodere da un capo all’altro dell’Europa: ma questa illusione fu anche la sua forza più grande. Se è vero che quasi tutte – ma non tutte –  le insurrezioni mazziniane fallirono, è anche vero che gran parte del patriottismo risorgimentale italiano passò dapprima attraverso l’esperienza mazziniana, e che gli uomini che accorsero a Roma e Venezia nel 1849 e nel Mezzogiorno durante il 1860, per non parlare dei volontari entrati nell’esercito regio, erano stati educati da decenni di mazziniana “propaganda con i fatti”. Non era vanteria ma semplice verità di fatto l’affermazione dell’esule genovese che, se non fosse stato per il partito d’azione, Cavour avrebbe avuto ben poco da dire dell’Italia alle cancellerie europee.

Indubbiamente, le organizzazioni mazziniane raggiunsero solo scarsi risultati fuori d’Italia: ma le testimonianze della continua pressione rivoluzionaria esistente nella penisola agirono certamente come stimolo e come impulso anche prima del 1848: e la loro efficacia nei decenni successivi fu tanto più grande quanto maggiore fu l’eco degli eventi italiani del 1848-49 e del 1859-61. Ma già i fatti del 1848 avevano inflitto un colpo gravissimo al sistema europeo uscito dai trattati del 1815. Sembra difficile negare che l’instancabile agitazione mazziniana abbia avuto una sua parte nel determinare la crisi e il successivo crollo di quel sistema

Rosario Romeo


[1] Fra i più significativi “riduzionisti” cfr. per es. F. GUNTHER EYCK, Mazzini’s Young Europe, in “Journal of Central European Affairs”, XVII (1958), pp. 356-77; L. GIRARD, Mazzini et la France, in Mazzini e il mazzinianesimo (Atti del XIV Congresso di storia del Risorgimento italiano), Roma, 1974, pp. 131-45; P. GUIRAL, Mazzini et le socialisme français, in Mazzini e l’Europa (Convegni Lincei, 201), Roma, 1974, pp. 79-87.

[2] A. GALANTE GARRONE, Mazzini in Francia egli inizi della “Giovine Italia”, in Mazzini e il mazzinianesimo, cit., p. 232.

[3] F. DELLA PERUTA, Mazzini e i rivoluzionari italiani, Milano, 1974, p. 61.

[4] Ibid., pp. 66-68.

[5] G. MAZZINI, Scritti editi ed inediti, Edizione nazionale, Imola, 1906 sgg. (EN), IV, p. 149.

[6] Ibid., IV, pp. 4, 11.

[7] Ibid., III, p. 62.

[8] V. la ristampa nell’introduzione a EN, IV, pp. XXVII-XXXI.

[9] GIRARD, op. cit., p. 139.

[10] Ibid., p. 134.

[11] F. F. BRACCO, Federalismo e questioni nazionali nella polemica di Proudhon contro Mazzini e l’Unità italiana, in “Annali della Facoltà di scienze politiche dell’Università di Perugia”, 1977-78. fasc. 2, pp. 19-60.

[12] Ibid., pp. 58-60.

[13] F. DELLA PERUTA, I democratici e la rivoluzione italiana, Milano, 1958, p. 284.

[14] La Erklarung, e le due successive controrepliche dei tre autori (Seid deutsch! Ein Mahnwort; An Mazzini. Offner Brief), editi a Berlino 1861, sono ristampati in J. K. RODBERTUS-JAGETZOW, Kleine Schriften, a cura di M. Wirth, Berlin, 1980, pp. 269-97. Le vicende della polemica sono esposte da F. DELLA PERUTA, Democrazia e socialismo nel Risorgimento, Roma, 1965, pp. 242-46.

[15] EN, LXIX, pp. 187-89.

[16] Cfr., da ultimo, Garibaldi, Mazzini e il Risorgimento nel risveglio dell’Asia e dell’Africa, a cura di G. Borsa e P. Beonio Brocchieri, Milano, 1984.

[17] EN, I, p. 382.

[18] C. SHAW, The impact of Mazzini upon the thought of the republican wing of the Chartis movement in England, in “Bollettino della Domus Mazziniana”, XXI (1975), pp. 297-318.

[19] EN, IX, p. 386.

[20] Ibid., VI, pp. 223-24.

[21] Una esposizione dei vari progetti mazziniani di riordinamento delle carte d’Europa in A. LEVI, La filosofia politica di Giuseppe Mazzini, nuova ed., Napoli, 1967, pp. 231-58.

[22] G. PIERAZZI, Mazzini e gli slavi dell’Austria e della Turchia, in Mazzini e il mazzinianesimo, cit., pp. 313-14.

[23] Cfr. soprattutto F. DELLA PERUTA, Mazzini e la Giovine Europa, in “Annali Feltrinelli”, V (1962), pp. 29-35 (ora in ID., Mazzini e i rivoluzionari italiani, cit., pp. 178-84, che però è privo dell’importante appendice documentaria). In generale S. KIENIEWICZ, La pensée de Mazzini et le mouvement national slave, in Mazzini e l’Europa, cit., pp. 109-23.

[24] DELLA PERUTA, Mazzini e la Giovine Europa, cit., pp. 35-36 (= Mazzini e i rivoluzionari italiani, cit., pp. 184-204). Cfr. anche ID., I democratici italiani, i democratici tedeschi e l’unità d’Italia, nel suo vol. Democrazia e socialismo, cit., pp. 157-246; K. OBERMANN, L’influenza del movimento per l’unità d’Italia sul movimento progressista tedesco nell’età del Risorgimento, in Problemi dell’Unità d’Italia (Atti del II convegno di studi gramsciani), Roma, 1962, pp. 247-52; K. H. LUCAS, Mazzini e la Germania, in Mazzini e il mazzinianesimo, cit., pp. 161-74. Per l’Austria, R. BLAAS, Metternich, Mazzini und die Grundung der Giovine Italia, in “Mitteilungen des osterreichischen Staatsarchivs”, XXV (1972), pp. 595-616.

[25] ID., Mazzini visto nei documenti della polizia austriaca, in Mazzini e l’Europa, cit., p. 70.

[26] T. SCHIEDER, Das italienbild der deutschen Einheitsbewegung, in “Begegnungen mit der Geschichte”, 1962, p. 218.

[27] DELLA PERUTA, Democrazia e socialismo nel Risorgimento, cit., pp. 210-13; LUCAS, op. cit., pp. 173-74.

[28] La guerra franco-germanica, EN, XCII, pp. 119-39.

[29] DELLA PERUTA, Mazzini e la Giovine Europa, cit., pp. 56-72 (= Mazzini e i rivoluzionari italiani, cit., pp. 204-219); E. BONJOUR, Histoire de la neutralité suisse, Neuchatel, 1949, pp. 159-72; G. FERRETTI, Esuli del Risorgimento in Svizzera, Bologna, 1948, pp. 223-74; A. CATTANI, Die Schweiz im politischen Denken Mazzinis, Zurich, 1951; A. LASSERRE, Henry Druey, fondateur du radicalisme vaudois et homme d’Etat suisse, Lausanne, 1960.

[30] PIERAZZI, op. cit., pp. 305-306.

[31] EN, XXIV, p. 220.

[32] PIERAZZI, op. cit., pp. 314-21.

[33] Ibid., pp. 338-39.

[34] Ibid., LXXXIII, p. 255.

[35] Ibid., V, pp. 52 sgg.

[36] DELLA PERUTA, Mazzini e i rivoluzionari italiani, cit., pp. 79-80.

[37] EN, VII, pp. 210-11.

[38] DELLA PERUTA, Mazzini e l’organizzazione della democrazia italiana tra la prima e la seconda “Giovine Italia”, in Mazzini e il mazzinianesimo, cit., p. 526.

[39] Ibid., pp. 400-500, 505.

[40] BLAAS, Mazzini nei documenti della polizia austriaca, cit., p. 60.

[41] Ibid., p. 59.

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