Il mito dell’anti-Risorgimento (1972)

di Arturo Carlo Jemolo – «La Stampa», 17 giugno 1972

Negli ultimi anni di guerra molti trovammo un qualche sollievo nelle pagine di un bel libro di narrativa, L’alfiere di Carlo Alianello. Era la vicenda dei Mille vista dal lato opposto, quello di un giovane ufficiale borbonico devoto al suo re, pieno di coraggio.

Il libro aveva pregi intrinseci, figure bene scolpite, una delicatissima di fanciulla, Titina; ma ci pareva anche rispecchiare i giorni che vivevamo. Il discorso scettico che nelle prime pagine teneva un alto ufficiale della marina borbonica rendeva il clima dell’Italia del 1943. Anche se c’erano ancora alcuni entusiasti, soldati coraggiosi, si sentiva il disfacimento, l’ineluttabilità della fine: là dei Borboni, qui del fascismo; là, come ora, al vertice persone incapaci, o preoccupate di non compromettersi, di lasciarsi una via aperta per l’avvenire. E poco appresso scorgemmo nuove analogie, la decomposizione di un esercito, le violenze della guerra civile.

Nel ’63 Alianello pubblicava L’eredità della priora; qui la Basilicata del ’60-’61, prossima alla annessione o già annessa all’Italia, ma non doma: legittimisti venuti dalla Spagna, ufficiali borbonici inviati con false generalità, magari assunti come impiegati dal nuovo governo, che preparavano la rivolta; autentici e feroci briganti; una plebe ostile ai «piemontesi», contrastavano all’esercito italiano considerato come straniero. Ancora riuscitissime figure femminili, Isabellina e Juzzella.

Quei romanzi non scandalizzavano chi non fosse del tutto ignaro di storia. Sapevamo che il Risorgimento era stato opera eminentemente della borghesia colta, con partecipazione popolare solo dove il dominio austriaco era sentito come straniero, ed in parte nei due ducati; ma in Toscana ed in gran parte dello Stato Pontificio il popolo non detestava i suoi governanti e nel Mezzogiorno meno ancora che altrove, si poteva ravvisare una coscienza politica della plebe. Il 1860-61, specie in due regioni del Mezzogiorno, fu l’eco di quel che al loro tempo erano state la Vandea, il 1799 piemontese (La bufera di Calandra), quello aretino, ancora nel Mezzogiorno le bande del cardinal Ruffo.

Da tempo sono stati indicati gli errori commessi dal nuovo regime. Brutta pagina l’essere ricorsi alla camorra per tutelare a Napoli l’ordine pubblico. Sbaglio lo scioglimento dell’esercito napoletano (molti ufficiali, quasi tutti quelli di marina, passarono però nell’esercito italiano, ove diedero ottime prove). Fu pur detto che si volle affrettare troppo la unificazione, anche per la preoccupazione di Cavour della proclamazione di una costituente italiana, che ponesse in forse la forma monarchica.

Nel secondo romanzo di Alianello però si calcava troppo la mano sulla crudeltà dei «piemontesi» e di quanto ancora operava di garibaldini (se pure sapessimo tutti di un generale Pinelli troppo proclive a fucilare); degl’italiani non si salvava nessuno. Ma almeno i briganti erano detti tali; Borjes ed i Carlisti operavano con loro, salvo, conquistato un paese, chiudersi in una casa per non assistere agli scempi, agli orrori dei briganti: neppure le vecchie monache potevano sentirsi sicure.

Ora Alianello ci dà un saggio storico, La conquista del Sud (Ed. Rusconi), che stupisce per la passione che lo percorre.

Oggi si cerca la equanimità anche parlando di avvenimenti meno remoti: si veda il caso di due volumetti, Alfassio Grimaldi e Bozzetti, Farinacci il più fascista, e Nozzoli, I ras del regime; vi è uno sforzo d’imparzialità, di cogliere pur ciò che v’era di falso in quanto fu scritto contro i più invisi, Starace e Farinacci, di riconoscere l’onestà dell’uno, il coraggio fisico dell’altro.

Quella passione mi ha stupito anche perché quando ero molto giovane frequentavo famiglie in cui i genitori, persone di mezza età, parlavano spesso di padri, suoceri, zii, ufficiali o magistrati o gentiluomini dei Borboni, rimasti fedeli a Francesco II; ed in queste evocazioni apparivano intorno al 1870-80, così nella eco che avevano avuto in loro le morti di Vittorio Emanuele e di Pio IX, pacificati, consci dell’ineluttabile, bene auguranti alla nuova Italia; poco appresso i superstiti avrebbero palpitato per i soldati che combattevano la prima guerra d’Africa, esaltato Toselli e Galliano.

Il libro d’Alianello considera ancora sanguinanti le remote ferite del ’60; avversione per Gladstone, calunniatore di Ferdinando II; descrizione del carcere di Settembrini e di Spaventa come luogo di sano riposo. Citato come fonte sicura quanto scrissero gli scrittori borbonici contemporanei: che sarebbe come, nel campo opposto, invocare La Cecilia per i Borboni, Bianchi Giovini per la storia della Chiesa, od i Monita secreta per i gesuiti.

Pagine pregevoli su Francesco II: patetica figura (per quale presentimento di analogia di destini Umberto di Savoia curò pietosamente, intorno al 1935, la traslazione della sua salma?), ma uomo fuori del suo tempo: così ostile all’idea italiana da correggere un ministro straniero che elogiando la bellezza della giovane sposa Maria Sofia aveva detto che sembrava predestinata per il bel suolo d’Italia; «di Napoli» aveva opposto il re; «non conosco l’Italia».

Rimproverato a Cialdini il bombardamento di Gaeta (pare che anche Garibaldi si allontanasse dicendo che dove si cominciava a bombardare, non era il suo posto); ed altrove si parla di ciò che provocò in Sicilia lo sbarco dei Mille, bande di assassini che uccidono e predano: onde l’episodio di Bronte, che per gli storici socialisti è una macchia su Garibaldi e Bixio.

Due rimproveri diversi; che non tengono conto del momento. Vero che lo sbarco a Marsala provocò un’adesione di «picciotti», cui nulla diceva il nome d’Italia, ma desiderosi delle terre, di vendette contro i galantuomini. Se Garibaldi non avesse represso, una jacquerie sarebbe dilagata per l’isola; a Bronte era stato ucciso un quindicenne colpevole solo di essere figlio di un notaio inviso. Finché Gaeta non cadeva, restava incerto se la monarchia borbonica potesse o meno sussistere.

Chi ricorda questi episodi deve pur rammentare che l’unità si stava formando contro il Trattato di Zurigo che prevedeva il ritorno dei vecchi principi; il regno d’Italia non era riconosciuto dalla maggior parte delle Potenze europee; Napoleone III lo sorreggeva invocando il «non intervento», ma aveva avversa l’opinione pubblica francese. Lo stesso Alianello scrisse che se i borbonici avessero potuto scacciare da Potenza «i piemontesi», forse ci sarebbe stato un intervento europeo. Gaeta e Bronte furono due necessità.

Longanimità dei Borboni… ma senza il ’59 che spinse ad imbarcare per l’America i politici condannati a trent’anni di reclusione, Castromediano, Settembrini, sarebbero rimasti in carcere; i cospiratori borbonici che avessero le mani pulite di sangue non soffrirono mai sotto i Savoia che pochi mesi di detenzione; assoluzioni ed amnistie sollecite.

Il mito del Risorgimento è sfatato da un pezzo; non creiamo l’altro mito, molto più falso, che si fonda sulla vecchia visione sanfedista del «vero popolo» che è quello analfabeta e senza scarpe che gli intellettuali corrompono.

Il regime dei Borboni non consentiva alcuno sviluppo; è sintomatico che tra i loro fedeli non emergesse una sola figura comparabile a quella dei devoti al ramo primogenito di Francia, tra cui c’è uno Chateaubriand.

E chi ama il popolo del Mezzogiorno potrà rimproverare all’Italia di non aver fatto quanto poteva fare per esso; ma vaneggia se lo immagina prospero e felice in un reame borbonico che si fosse protratto per un altro mezzo secolo.

Arturo Carlo Jemolo

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