A proposito di alcuni dischi di Egon Petri (1966)

di Luigi Dallapiccola – In «Disclub», Firenze, IV, n. 19, marzo-aprile 1966. Ora in “Parole e musica”, a cura di F. Nicolodi, Il Saggiatore, Milano 1980, pp. 179-187.

Avendo Alfred Cortot disdetto nell’ultima settimana di marzo del 1939 la sua tournée italiana, con la motivazione che non era suo desiderio presentarsi a pubblici che inscenavano gazzarre di fronte ai Consolati francesi (si trattava di manifestazioni comandate: non si dimentichi che già qualche mese prima Mussolini aveva fatto sapere alla Francia che le «rivendicazioni» italiane avevano dei nomi precisi; al che i Consiglieri Nazionali, in coro, avevano urlato Tunisi, Corsica, Gibuti), l’allora sovrintendente del Teatro Comunale di Firenze, Mario Labroca, provvide a sostituirlo con Egon Petri. Questi arrivò da Londra alle 14 del 2 aprile 1939, domenica, e si presentò in pubblico alle 17, senza aver provato con l’orchestra, nel Concerto op. 73 di Beethoven.

Nell’atrio del «Comunale», studentesse e diplomate in pianoforte del Conservatorio, mi si avvicinarono. «Chi è questo Egon Petri?». Le più informate mi domandavano se, per caso, si trattasse di quello stesso Petri che aveva «riveduto e diteggiato» le Suites Francesi di Bach… Nulla di straordinario in questa ignoranza, qualora si consideri che nel volume di Alfredo Casella Il Pianoforte (1937) il nome di Petri appare una solta volta, e non citato come pianista sommo, ma soltanto come collaboratore (e, in più, alquanto discutibile) di Busoni nell’edizione delle opere di Bach.

Quanto poco popolare egli fosse in Italia si deduce anche scorrendo il libro – affascinante sotto tanti punti di vista, non ultimo quello dello stile magistrale – di Beniamino Dal Fabbro, Crepuscolo del Pianoforte, dove il nome del grande interprete non figura nemmeno.

Su Egon Petri, in Italia, per lungo tempo pesò negativamente il fatto di essere egli stato alunno di Ferruccio Busoni. Per quanto i suoi successi fossero stati sempre notevolissimi, non fu mai artista «desiderato» dal nostro pubblico, probabilmente per il tipo di programmi che presentava: sempre programmi di altissimo livello intellettuale e quindi tali da imporre uno sforzo all’uditorio; non «divertenti» come quelli che tanti pianisti internazionali erano soliti proporre al pubblico or sono trent’anni.

Il Quinto Concerto beethoveniano di quel 2 aprile 1939 rimane in me una delle non molte impressioni indelebili della mia vita di frequentatore di concerti: la sua interpretazione mi apparve totale; da accettarsi senza la minima riserva. (Aggiungerò, come solo dettaglio, che mai mi era avvenuto come quel giorno di ascoltare una realizzazione così completa della innere Phrasierung). Che il pubblico, dal canto suo, rimanesse colpito, scosso sino in fondo si può dedurre dal fatto che Petri, sconosciuto alla quasi totalità dell’uditorio, dovette concedere tre pezzi fuori programma. E un particolare abbastanza gustoso: il mio vicino di posto, un direttore di banca, alla fine del primo tempo, pensando che Petri sostituiva Cortot, mi sussurrò all’orecchio: «Abbiamo guadagnato nel cambio».

Franz Liszt

The famous piano transcriptions from

Mozart to Mendelssohn:

Paraphrase on Wedding March and Elfin Chorus from Mendelssohn’s Mid-summer-Night’s Dream

Waltz from Gounod’s Faust (with Busoni Cadenza);

Adélaide (after Beethoven);

Mephisto-Waltz (arr. Busoni);

Fantasie on two motives from Mozart’s «Marriage of Figaro».

Liszt Anniversary Edizion

Westminster XWN – 18968

Questo disco, insieme a quello dedicato a quattro trascrizioni busoniane di Bach, sembra proporre ancora una volta il problema della trascrizione; problema questo su cui, in certi paesi (negli Stati Uniti, per es., dove vige la religione dell’Urtext) si sorvola o che si liquida con un sorriso di benevolo compatimento. (Strano però che, nello stesso paese, avvenga così frequentemente di trovare ammiratori della trascrizione dei Quadri di una esposizione fatta da Wladimir Horowitz, nonostante i suoi arbitri e nonostante, sopra tutto, l’aver essa declassato a livello di pianoforte «normale» di pianoforte «eccezionale» – tanto è inedito e ardito! – di Musorgskij).

Ho detto «sembra proporre ancora una volta il problema della trascrizione».

Ricordo, infatti, che nel Congresso affiancato al Maggio Musicale 1935, il problema della «trascrizione come fatto artistico» fu trattato e a lungo discusso: sono di quell’epoca, fra gli altri, il saggio di G. Alberto Mantelli (Compositore e trascrittore) apparso su «La Rassegna Musicale» del marzo-aprile 1934 e quello di Ferdinando Ballo (Interpretazione e trascrizione) pubblicato nel numero di giugno del 1936 della stessa rivista. In quest’ultimo, e per la prima volta in Italia, si citavano alcune battute del «Preludio e Fuga in mi bemolle» di Bach-Schoenberg e si poteva vedere inoltre come Webern avesse articolato strumentalmente il tema della «Fuga» (Ricercata) del Musikalisches Opfer di Bach. In ambedue i saggi appariva chiaro come lo scritto busoniano Valore della trascrizione, del novembre 1910, non fosse stato dimenticato (cfr. Ferruccio Busoni, Scritti e pensieri sulla musica; ed. Ricordi, 1954, pag. 27).

Mephisto-Walzer

Egon Petri interpreta la versione busoniana del pezzo, «basata parzialmente sulla partitura d’orchestra e nuovamente trascritta»[1]. Circa la legittimità della trascrizione in genere non credo possano sussistere dubbi (qualora sia fatta da una grande personalità come quella che in questo momento c’interessa) di fronte alla musica di Liszt, in quanto non c’è altra musica pianistica che quanto questa abbondi di «ossia» – cioè di varianti scritte in note piccole – che l’esecutore, se del caso, potrà sostituire al testo «fondamentale». Sono proprio queste varianti e la frequenza di queste che ci inducono e ci autorizzano a supporre che Liszt, per le sue illimitate possibilità tecniche, per la sua sbrigliata e inesauribile fantasia, talora improvvisasse nei concerti una terza o anche una quarta variante, a seconda dell’estro che lo guidava in quel preciso momento.

I dubbi di Liszt, il suo travaglio compositivo, affiorano in modo impressionante qualora si esamini l’autografo del Mephisto-Walzer, attualmente in possesso della Robert Owen Lehman Foundation (Washington): pentimenti e correzioni a non finire, richiami, battute incollate, segni in lapis di vari colori… un manoscritto tormentato quanto quelli di Beethoven.

Un pianista romano, che fu allievo di Lizst[2], affermò una volta che, nonostante l’ammirazione che nutriva per il suo Maestro, era costretto ad ammettere come talora egli fosse stato «negletto nei particolari». Busoni vede diversamente quando dice che Liszt, talvolta, anziché mettere l’esecutore di fronte a un problema del tutto risolto, propone all’esecutore la soluzione di problemi. Che Busoni abbia sempre operato in questo senso si rileva chiaramente da un passo della Lettera aperta (a un critico) del gennaio 1909 (op. cit., pag. 20);… «Per quel che riguarda la mia interpretazione dello spirito lisztiano, è naturale che essa si fonda con la mia propria personalità, per quanto io ne possegga una. Però posso riferirVi con gioia che valenti scolari di Liszt (e tra questi anche quei due che Voi nominate) riconobbero apertamente e spesso commossi che il mio istinto ha incontrato le intenzioni del Maestro».

La versione pianistica lisztiana del Mephisto-Walzer presenta, fra tante altre, una difficoltà particolare: è impresa molto ardua, infatti, realizzare una unità tra i vari episodi e le frequenti pause (anche di varie battute) non aiutano certo il pianista a risolvere il problema.

Busoni, nella sua trascrizione, ne accorcia una (pag. 6, ultima battuta; Ed. Schirmer; New York) e ne elimina un’altra (Molto vivace; 2/4; pag. 27): si confrontino, a questo proposito, i passi corrispondenti nella versione orchestrale (pag. 17, ultima battuta, rispettivamente il Molto vivace, 2/4, a pag. 54; Ed. Schuberth, Leipzig) e non sussisteranno più dubbi sulla legittimità di questi cambiamenti. Molte divergenze busoniane dalla versione originale per pianoforte hanno il loro fondamento appunto nella partitura d’orchestra e ciò soprattutto per quanto riguarda gli elementi decorativi. Già nei due ultimi righi della pag. 2 ne abbiamo una prova e lo stesso dicasi del «Vivamente» a pag. 5 e del suo periodo parallelo (pag. 7; ultima riga).

Nell’«un poco meno mosso (ma poco)» l’originale ci propone cinque «ossia» e la partitura d’orchestra ne dà l’equivalente in cinque passi affidati ai Flauti («flatternd», cioè «svolazzando»). La versione busoniana ci presenta cinque volte un passo decorativo (con l’indicazione «flatternd»), ma più breve e assai più efficace, in quanto ha inizio sul punto culminante della curva melodica. Di particolare significato pianistico il passo a pag. 28, dove Busoni impone l’ardita diteggiatura indice-mignolo per le ottave spezzate, onde ottenere con tutta naturalezza l’effetto «springend» (saltando). Non, quindi, in questo caso, «facilitazione» della versione pianistica lisztiana, ma un’altra cosa; e anche questa suggerita dalla versione orchestrale. Come, del resto, il più grande miracolo sonoro di tutto il brano, le pagine 20-22. «Voluttuoso», si legge, in parentesi, all’inizio dell’episodio; né altro aggettivo sarebbe immaginabile. Perché, se si dovesse scegliere dal lungo frammento di Lenau, citato nella prima pagina, qualche verso atto a figurare come epigrafe alla versione pianistica lisztiana, la scelta non potrebb’essere se non quella già fatta da Hanslick e collocata in testo alla sua nota critica viennese:

Jetzt klingen im Dreigriff die lustigen Saiten,

Wie wenn um ein Mädel zwei Buben sich streiten[3]

mentre, qualora si volesse fare qualche cosa di simile per la versione orchestrale (e più ancora, forse, per quella di Busoni), il verso da citarsi, quello che comprende tutto il pezzo, non potrebb’essere se non l’ultimo:

Und brausend verschlingt sie das Wonnemeer[4]

Liszt dovette sentire chiaramente, che, con la versione orchestrale aveva creato un’altra opera, derivata sì, ma tuttavia indipendente da quella pianistica. E qui può essere interessante notare che la versione orchestrale ha due conclusioni (a scelta, evidentemente, del direttore): la seconda (che non mi risulta venga mai eseguita) porta in testa, fra parentesi (epigrafe? indicazione per l’interprete? non so), appunto l’ultimo verso del frammento di Nikolaus Lenau.

L’esecuzione di Egon Petri fa pensare a una freccia che parte e colpisce diritta il bersaglio. Il suo accento personalissimo, la sua convinzione, l’organizzazione della dinamica (si osservi il molteplice «crescendo» fra le pagine 24 e 25), la terrificante sonorità delle quattro battute all’inizio del «Molto vivace» a pag. 27; e poi il senso di poesia e l’arte con cui sono distribuiti i piani sonori collocano tanto in alto questa interpretazione da indurmi a concludere che, eseguito così, il Mephisto-Walzer è preferibile sia all’originale di Liszt, sia alla versione orchestrale, nella quale, personalmente, desidererei qua e là un poco più di «pedale».

Né questo è il solo brano sorprendente nel mirabile disco.

Per quanto artisti che stimo profondamente collochino accanto al Mephisto-Walzer, per interesse di composizione e di esecuzione, la Fantasia su due temi de «Le nozze di Figaro», non esito a dare la mia preferenza al Walzer dal «Faust» (nel centro del quale è inserita la lunare Cadenza di Busoni).

Qui Egon Petri crea un’apoteosi del Salon-Stück, evocando un’epoca e un pubblico che conosciamo indirettamente, attraverso letture o per sentito dire più che per esperienza personale. Nemmeno per un istante l’interprete cede alla tentazione di ironizzare quel «mondo di ieri» che la prima guerra mondiale soppresse in modo definitivo: egli ci ridà quell’epoca ormai consegnata alla storia, senza giudicarla; giuoca con la materia sonora e, nell’arditissimo giuoco, gode della propria bravura.

Petri Plays Bach-Busoni

Toccata and Fugue in D minor;

Toccata, Adagio and Fugue in C major;

Prelude and Fugue in E flat major («St. Anne»);

Prelude and Fugue in D major

Westminster XWN – 18910

Nella citata prefazione dedicatoria «a Robert Freund» delle Toccate in do maggiore e in re minore, datata «Berlino, 1900», Busoni parla di queste come di opere fra le sue «più mature» nel campo della trascrizione.

Con ciò, verosimilmente, intendeva dire che nelle Toccate era riuscito a raggiungere un rendimento pianistico assolutamente straordinario, con mezzi più semplici che non nelle trascrizioni che le avevano precedute. (Un’altra volta, in Busoni, ha fruttificato l’esempio di Liszt, che – eliminando anziché aggiungendo – nella terza versione dei Sei studi d’après Paganini, ha consegnato al futuro quella definitiva). Non c’è dubbio che sia da attribuirsi a ciò se le due Toccate entrarono rapidamente nel repertorio dei grandi pianisti; mentre per es. il Preludio e Fuga in mi bemolle, tanto più difficile e forze talvolta addirittura «problematico», è apparso relativamente di rado nei programmi di concerti.

Eppure questo, primo e ultimo brano della terza parte della Klavierübung n. 3, è non soltanto il più imponente fra i quattro pezzi contenuti nel disco, ma è anche uno dei punti sommi in tutta l’opera di Bach.

Egon Petri sembra non accorgersi della difficoltà e ignorare quello che alla lettura può sembrare problematico. La grandezza di linea che egli impone a questa composizione, la vastità del suo respiro di esecutore, che non ha un solo cedimento, il volume, la bellezza e la compattezza del suo suono (compattezza sempre presente, qualunque sia il grado della dinamica), la trasparenza assoluta del tessuto contrappuntistico e, infine, quel tanto di libertà che l’interprete si concede e che rigorosamente controlla, mi inducono a considerare questa esecuzione la più alta fra le quattro comprese nel prezioso disco.

Egon Petri Plays Beethoven Hammerklavier Sonata

n. 29, in B flat Major, op. 106

Westminster XWN – 18747

Un po’ come avviene in certe grandi esecuzioni della Sinfonia Eroica (in quella di Erich Kleiber, per esempio), dove appena nel finale sembra che l’interprete sveli all’uditore il segreto della composizione complessiva, così Egon Petri, interpretando questa Sonata sembra abbia posto la massima cura a che tutto appaia convergere verso la «Fuga a tre voci, con alcune licenze».

Con dialettica sovrana stabilisce i punti fermi dell’opera gigantesca e li unisce fra di loro per mezzo di una discorsività che non si saprebbe desiderare più naturale: all’ascolto la costruzione generale risulta chiara come se si avesse davanti agli occhi la musica scritta.

Se veda, a questo proposito, il secondo tempo, di così eccezionale forma per la sua epoca e così carico di conseguenze per il futuro. Scherzo, si legge alla prima battuta, né troveremo altre indicazioni formali.

Pure rendendoli udibilissimi, Petri non sottolinea affatto i minuscoli «crescendi» e i «diminuendi» compresi nelle singole legature; anziché eseguire «in corsivo» la quasi-citazione della Sinfonia Eroica (quasi I Trio?), la esegue «in parentesi» e con ciò il Presto in 2/4 (quasi II Trio?), con la cadenza Prestissimo che lo conclude e infine col Tempo I che precede la ripresa dello Scherzo, assume un rilievo del tutto particolare. Anziché sembrare cioè (come spesso avviene) una bizzarria avulsa dal contesto o, nel migliore dei casi, una Bagatella inserita in un tempo di Sonata, rientra, perfettamente inquadrato, nella costruzione generale.

Questo disco costituisce un altissimo esempio di interpretazione e allo stesso tempo una lezione. In 45 minuti Egon Petri non una volta varca i limiti della dinamica prescritta da Beethoven: il ff rimane ff e non si trasforma in fff; il pp non scende mai al ppp. Lezione, dunque, in quanto ammonimento agli esecutori che ricercano l’effetto; avvertimento agli interpreti che la grande esecuzione è rinuncia. Punto culminante di questa rinuncia, l’Adagio[5]. In quattordici minuti di musica non è rilevabile una sola concessione.

Ricordo che, anni or sono, desiderando che i miei alunni del Queens College di New York potessero controllare quanto avevo spiegato in tre lezioni dedicate all’analisi della «Fuga a tre voci, con alcune licenze», scelsi, pur non conoscendola, fra la mezza dozzina d’incisioni discografiche che la Biblioteca metteva a mia disposizione, quella di Petri (si trattava del vecchio disco Columbia, ML-4479). Per mesi mi ero servito di dischi eccellenti e avevo analizzato vari capolavori. Ma quel giorno avvenne qualche cosa d’inaspettato: l’ultimo accordo risonava ancora per l’aria che la scolaresca, perdendo il controllo, proruppe in un applauso. La comunicativa dell’interprete aveva operato il miracolo: il giovane uditorio aveva perduto di vista il disco e il giradischi e per un attimo deve aver creduto di trovarsi in una sala di concerto.

Dopo l’audizione di questi dischi credo di poter concludere che, pur restando in me ferma la convinzione della irripetibilità del caso Busoni (come, del resto, del caso Liszt e Paganini), oggi si possa tranquillamente parlare di Egon Petri non più come dell’alunno, bensì come del primo fra i legittimi eredi di Ferruccio Busoni.

Luigi Dallapiccola


[1] Nella prefazione dedicatoria delle Toccate «a Robert Freund» leggo: «Mephisto-Walzer, mit theilweiser Anlehnung an die Orchesterpartitur fuer Clavier neubearbeitet».

L’edizione Schuberth e C., Leipzig, elimina l’aggettivo «theilweise» [parziale] e l’edizione Schirmer di New York indica: «Based on the Orchestra Score and Newly Arranged for the Piano by Ferruccio Busoni».

Conservo il «parzialmente» perché mi sembra rispecchiare con esattezza il tipo di lavoro svolto da Busoni.

[2] Si tratta del pianista e compositore Giovanni Sgambati (1841-1914) [N.d.C.].

[3] «Risuonano insieme le gaie corde degli strumenti come quando due giovani si contendono una ragazza» [N.d.C.].

[4] «E il mare della voluttà, tumultuando, li inghiotte» [N.d.C.].

[5] «Il profano, il semi-artista, il pubblico (e purtroppo anche la critica!) scambiano il sentimento, nel senso elevato della parola, per mancanza di sensibilità; perché essi tutti non sono capaci di afferrare vaste linee come parti di un tutto ancora più vasto. Dunque sentimento è anche economia (Busoni, op. cit., pag. 21 e 140).

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