Ricordo di Wilhelm G. Hertz (1966)

di Luigi Dallapiccola – Terminato il 16 maggio 1966 questo articolo venne pubblicato in «Studi danteschi», Firenze, XLIII, 1966. Per questa collaborazione di Dallapiccola a una rivista di filologia letteraria, cfr. la affettuosa testimonianza del committente, G. Contini, Dallapiccola e Dante, in AA. VV., In ricordo di Luigi Dallapiccola, n. spec. Del «Notiziario Suvini Zerboni», Milano, 1975; quindi in Luigi Dallapiccola, Parole e musica, a cura di F. Nicolodi, Il Saggiatore, Milano 1980, pp. 188-193.

Mi rendo conto che l’apparire del mio nome in calce a un articolo di una rivista riservata a studi specializzatissimi su Dante potrà destare una certa sorpresa. Io stesso, a dire il vero, sono rimasto indeciso per vari giorni circa la risposta da dare all’invito rivoltomi così cortesemente da Gianfranco Contini e se, alla fine, questa è stata affermativa, lo è stata unicamente perché desideravo rendere omaggio, in istile semplice e familiare (né altro a me sarebbe possibile), al poeta recentemente scomparso, all’uomo che per quasi dieci anni mi ha onorato della sua amicizia.

Un’amicizia sorta in modo ben strano.

Alla stazione di Stuttgart, il 21 maggio 1956, stavo osservando i libri che si offrivano ai viaggiatori nel chiosco del giornalaio. Dieci anni or sono, nelle stazioni, non si vedevano esposti i classici della letteratura mondiale né le opere appena uscite, come usa oggi: «letteratura ferroviaria» aveva allora un significato nettamente dispregiativo, in quanto il libro che si acquistava alla stazione costituiva nel migliore dei casi un mezzo per ingannare la noia del percorso. Ricordo che, in un determinato momento, dovetti esercitare uno sforzo su me stesso per convincermi come il ritratto che appariva ai miei occhi sullo sfondo di una copertina azzurra, esposto tra un romanzaccio dal titolo confortevolmente pornografico e un volume di barzellette illustrate, nonostante la somiglianza indiscutibile, fosse proprio quello di Dante. Eppure non ci potevano esser dubbi: sulla copertina si leggeva Die göttliche Komödie.

Senza interessarmi al nome del traduttore apersi il libro e il mio occhio cadde sulla terzina corrispondente a quella che comincia

Quale i Fiamminghi tra Guizzante e Bruggia…

La resa poetica della traduzione mi convinse immediatamente, m’interessò e acquistai il volume.

Con curiosità, di ritorno all’albergo, mi misi alla ricerca di passi impervii come

Ed eran due in uno e uno in due…

Più che ‘l doppiar de li scacchi s’immilla…

Ciò che per l’universo si squaderna…

e volli pure accertarmi di come il traduttore avesse risolto il problema delle «rime aspre e chiocce», volli vedere quale trasposizione avesse escogitato per trovare una rima al verso «Vexilla regis prodeunt inferni», …: insomma dedicai buona parte del pomeriggio a esaminare gli equivalenti dei passi che per primi mi venivano alla memoria.

A me, musicista, la versione di Wilhelm G. Hertz sembrò di altissimo pregio. Da lontananze astronomiche, voglio dire dagli anni in cui frequentavo il Liceo, sorgevano dalle profondità della mia coscienza reminiscenze del Convivio: «Sappia ciascuno che nulla cosa, per legame musaico armonizzata, si può dalla sua loquela in altra trasmutare senza rompere tutta sua dolcezza e armonia». Nulla da opporre a quanto è stato esposto una volta per sempre con così adamantina chiarezza. Se non che, ovviamente, senza le traduzioni, innumerevoli tesori letterari resterebbero chiusi con sette suggelli a quei milioni e milioni di persone che non conoscono se non la loro lingua materna.

Ogni traduzione ha anche uno scopo pratico; persino la più riuscita e la più poetica: né mai traduzione poté né potrà raggiungere l’originale. Ma non è forse una specie di traduzione a scopo pratico anche l’esecuzione musicale, cioè la realizzazione sonora dei segni immobilizzati sul pentagramma, in quanto costituisce l’intermediario indispensabile fra il segno ammutolito sulla carta e l’uditorio incapace di decifrare i simboli musicali? Eppure nessuna esecuzione potrà realizzare tutto ciò che sta scritto nel testo, né esistono due esecuzioni identiche, nemmeno se affidate allo stesso esecutore. (Non è detto, d’altronde, che non si possano accettare esecuzioni assai diverse fra di loro; come ritengo, nelle traduzioni poetiche, non sia sempre e soltanto determinante l’esattezza con cui è reso un dato vocabolo).

Ero, in quel maggio 1956, fresco della lettura di un articolo del grande musicologo ungherese Otto Gombosi su due edizioni della Messe Notre-Dame (1374?) di Guillaume de Machaut e ne rammentavo con particolare vivezza un capoverso: «The two editions, by (Armand) Machabey and (Guillaume) de Van form a curious contrast. Machabey tries the well-nigh impossible: a critical edition for practical use…»[1] («The Musical Quarterly», New York, aprile 1950, p. 205). Si vede da ciò come il Gombosi si rendesse conto della inevitabilità di qualche compromesso nei lavori di trascrizione (= traduzione) musicale, almeno per quanto riguarda le opere composte vari secoli or sono. (E non parlo di altro cocentissimo problema che non mi risulta sia stato particolarmente trattato: di quante doppie vibrazioni consisteva il la centrale, or sono alcuni secoli, se soltanto cent’anni fa ne aveva 435 e oggi 444?).

Stavo pensando o ripensando tutto ciò quando sulla copertina interna del volume appena acquistato mi avvenne di leggere: Prima edizione: maggio 1955; 1°-50° migliaio / Seconda edizione: ottobre 1955; 51°-75° migliaio. La versione che mi aveva sùbito così colpito era stata dunque anche un successo di pubblico. Quanta gente, attraverso questa, poteva venire in contatto col pensiero di Dante e con la sua poesia – e sia pure privata del suono così particolare della lingua originale!

M’informai dell’indirizzo di Wilhelm G. Hertz e qualche settimana dopo gli scrissi per esprimergli ammirazione e gratitudine per la sua fatica, non mancando tuttavia di fargli presente che, per quanto quasi ogni giorno mi avvenisse di aprire la Commedia, dovevo esser considerato un innamorato, non un competente.

La risposta di Hertz non tardò molto. Il 19 luglio 1956 mi scriveva: «Le Sue buone parole mi hanno dato molta gioia, in primo luogo perché vengono dall’Italia, dal paese cui va il mio grande amore; poi perché sono state scritte a Firenze, la città ricca di spiritualità (geistreiche), da un conoscitore di Dante».

Seguivano alcune notizie sulla sua vita: insieme alla sua ammirevole compagna era stato in Italia alla fine degli anni venti; aveva visitato l’incomparabile Venezia; ad Asolo si era devotamente chinato sulla tomba di Eleonora Duse (nella rara atmosfera della sua casa di Ginevra, dove visitai Wilhelm G. Hertz e la sua signora il 15 marzo 1959, vivono molti ricordi della grandissima attrice…). Le circostanze del decennio 1930-1940 l’avevano spinto dapprima in Isvizzera e più tardi negli Stati Uniti, dove era vissuto per tredici anni. Dal 1951 era rientrato a Ginevra, «das Land der Griechen mit der Seele suchend»…[2]

Da un suo nonno aveva ereditato un Dante senza commento, con semplici note a pie’ di pagina, in un’edizione tascabile edita a Parigi, presso Thiérot, nel 1846. (Che sia il caso di citare James Joyce ancora una volta? «How life begins…»). Aveva lavorato alla versione dantesca durante vari lustri; a München, a Ginevra, a New York….

La corrispondenza continuò. Credo non ci sia stata una sola sua lettera in cui non facesse capolino il nome di Dante, nome da lui considerato simbolo e quintessenza del paese che adorava. «Il sogno dei miei giovani anni è stato di morire in Italia», mi scriveva il 1° marzo del 1962. E il 14 luglio 1964, pensando vagamente alla scelta di una nuova residenza: «… mia moglie parla di München, io dell’America, ambedue di Zurigo… L’Italia? Troppo bello per esser vero…».

Tutta la sua vita sembra essersi svolta sotto il segno della cultura italiana. Nella sua ultima lettera, datata 23 novembre 1965, forse già un po’ stanca, fra il resto mi scriveva di una proposta avuta dal Dr. Rudolf Hirsch[3]: «Si sente Ella tanto forte da farci dono di un Ariosto tedesco? Sarebbe stupendo. Gli mandai alcuni saggi di traduzione, che gli piacquero straordinariamente. Ma… debbo ancòra, posso ancòra avventurarmi in un simile mare di lavoro?».

Due settimane più tardi, il 9 dicembre, ci lasciava per sempre.

Nella sua vivissima corrispondenza mi aveva tenuto al corrente della varie attestazioni di stima e di ammirazione che le autorità italiane residenti in Isvizzera gli avevano tributato; mi aveva parlato delle reazioni, sia di quelle favorevoli (molte e importanti), sia di quelle sfavorevoli, che il suo «Dante» suscitava. E con quanta semplicità! Non una parola ironica contro critici che, non tenendo conto come la terza rima sia uno dei tanti simboli religiosi di Dante, lo rimproveravano di averla adottata (come altri, del resto, e fra questi – almeno per quanto so – Stefan George, Richard Zoozmann e Benno Geiger), in quanto estranea alla tradizione poetica tedesca o appartenente a una simbologia lontana dal modo di sentire del pubblico germanico. Né un accento sarcastico quando un critico gli volle ricordare che Giovanni Papini aveva scritto che «per intender pienamente Dante ci vuole un cattolico, un artista e un fiorentino»! (Sia detto di sfuggita che il critico in questione, citando a orecchio, sbagliava. Scriveva, infatti, «Italiener, Katholik und Florentiner»).

Certo, era convinto che la sua versione fosse necessaria e ne ebbe dimostrazione palese nell’anno dantesco 1965: o per un verso o per l’altro esempi tratti dal Hertz hanno figurato accanto a quelli di George e di Geiger, accanto a quelli di Gmelin e di Philaletes, a quelli, infine, di Vossler e del Wartburg.

Soffriva talvolta per la solitudine? Non sono in grado di affermarlo, per quanto il 16 febbraio 1965 mi avesse scritto che l’uscire la sera era diventato per lui impossibile e che anche durante il giorno evitava di trovasi in luoghi dove si fumava. Notai in lui una più che comprensibile amarezza quando mi comunicò che la sua versione delle due tragedie del Manzoni, ultimata nel 1961, tre anni dopo non aveva ancòra trovato un editore.

Ho tentato di far conoscere il Dante di Hertz in Italia, sin dalla seconda metà del 1956; ma mi sono imbattuto in difficoltà alquanto strane e che non potevo prevedere. La «Dante Alighieri» di Firenze mi rispose che, dalle varie filiali tedesche, non era arrivata alcuna segnalazione ufficiale: chiaro quindi che la mia, non-ufficiale se mai al mondo una ve ne fu, non poteva esser presa in alcuna considerazione. Due seri e preparatissimi amici, valenti direttori di Istituti italiani di Cultura all’estero, s’interessarono seriamente al problema che ponevo; ma, in questo caso, la difficoltà insuperabile sembrò essere di natura burocratica. Il Hertz, tedesco di nascita, cittadino americano (certo ancòra nel 1959 e nel 1961), residente a Ginevra, a quale nazione effettivamente apparteneva? Dopo un mio ulteriore passo, la versione che io segnalavo venne sottoposta all’esame di Leone Traverso: ebbi la gioia di sapere che il suo giudizio, tanto più competente del mio, era almeno altrettanto entusiastico quanto il mio… Ma non si approdò a nulla.

Infine, una piccola luce: Hertz fu invitato l’anno scorso a partecipare alle celebrazioni dantesche. Il 16 febbraio 1965 mi scriveva: «Nell’entusiasmo del primo momento ho accettato l’invito, in linea di massima». Ma la sua salute era già scossa e altre considerazioni ancòra lo fecero desistere e, prima fra tutte, il timore di non poter reggere alla piena dell’emozione. Si sentiva vecchio e voleva sfruttare quella poca energia che gli rimaneva per lavorare ancòra. «La prudenza è una delle virtù cardinali» – leggo nella stessa lettera.

Il meritatissimo onore gli arrivava troppo tardi.

Il mese scorso venni richiesto del suo indirizzo: Gianfranco Contini desiderava proporre Hertz per il premio dell’Accademia dei Lincei. Ma il mio grande amico era lontano e probabilmente intendeva soltanto una lingua che gli uomini non parlano.

Esistono manoscritte le sue versioni delle tragedie manzoniane. Mi sia lecito esprimere la speranza di vederle pubblicate, oggi, nel mentre indirizzo l’estremo addio all’artista, all’amico Wilhelm G. Hertz.

Luigi Dallapiccola


[1] «Le due edizioni di Machabey e de Van formano un curioso contrasto. Machabey tenta quasi l’impossibile: un’edizione critica per uso pratico» [N.d.C.].

[2] Goethe, Iphigenie in Tauris, I, 1: «cercando con l’anima la terra dei Greci»; citazione comunemente usata nei paesi di lingua tedesca in senso metaforico [N.d.C.].

[3] Direttore dell’Insel Verlag.

Lascia un commento

Progetta un sito come questo con WordPress.com
Comincia ora