La nascita del Partito popolare italiano

di Francesco Malgeri – In “Storia del movimento cattolico in Italia”, diretta da F. Malgeri, vol. III, «Popolarismo e sindacalismo cristiano nella crisi dello Stato liberale», Il Poligono, Roma 1980, pp. 23-41.

1. Guerra e dopoguerra

Nella storia italiana degli ultimi cento anni pochi avvenimenti hanno avuto conseguenze e riflessi paragonabili alla prima guerra mondiale. Essa incise profondamente e traumaticamente sulla società italiana, non solo per i sacrifici e i lutti che impose al paese, ma perché segnò una sorta di rivoluzione che trasformò il costume, la mentalità, il comportamento degli italiani. Dopo circa tre anni e mezzo di guerra non troviamo più lo stesso paese lasciato nel maggio del 1915. Non troviamo più l’«Italietta» giolittiana che, pur con i suoi problemi e i suoi drammi, appariva gaia e spensierata agli occhi di qualche osservatore. La guerra è uno spartiacque tra l’Italia liberale e risorgimentale, borghese e provinciale, e l’inquieta Italia del dopoguerra, che nel fuoco e nel sangue della guerra sembra aver perduto i suoi antichi valori, senza trovarne altri sui quali porre le basi per una nuova convivenza civile. Tutte le profonde contraddizioni che avevano accompagnato la società italiana in mezzo secolo di storia unitaria, a lungo contenute all’interno di un sistema sociale con le sue valvole di sicurezza, esplodono improvvisamente nel clima del dopoguerra.

L’Italia del dopoguerra, una Italia che aveva pagato i costi più pesanti della politica economica, industrialistica e protezionistica dei governi liberali da Depretis in poi, che aveva con l’emigrazione oltre Oceano e oltr’Alpe cercato la soluzione di secolari problemi di sopravvivenza nella speranza di nuovi e più fortunati destini, spesso illusori, questa Italia contadina è costretta a pagare anche i costi più duri della guerra, nelle trincee e in prima linea, a diretto contatto con il fuoco nemico. Fianco a fianco si conoscevano per la prima volta dopo mezzo secolo di unità nazionale i contadini delle più lontane regioni italiane, dalla Calabria, dalla Sicilia alla Lombardia al Veneto, culture e uomini diversi e lontani, uniti in un’unica e drammatica esperienza, di cui a stento riescono a coglierne la ragione. Cresce in loro una solidarietà nazionale nuova che è anche solidarietà di classe, li unisce la sorte comune ma anche una comune speranza di giustizia. La propaganda bellica alimenta queste speranze: lo slogan «la terra ai contadini» è ripetuto dai giornali; le stesse autorità militari, nei momenti più difficili della guerra alimentano illusioni che rimbalzano di trincea in trincea. L’attesa della terra simboleggia non solo l’antico sogno del contadino italiano, ma è anche attesa di giustizia, attesa di un mondo nuovo che, posate per sempre le armi, avrebbe dovuto assicurare un migliore avvenire per tutti.

Questo sentimento accomuna la gran parte dei reduci, crea speranze che dovevano scontrarsi con sorde resistenze e con una realtà estremamente difficile. Alle speranze deluse seguì la protesta e l’azione rivendicativa. Le notizie che giungevano dalla lontana Russia, ove di stava realizzando la prima grande rivoluzione proletaria della storia, alimentano una sorta di attesa messianica: nelle fabbriche si prendono a prestito dalla rivoluzione bolscevica alcuni strumenti operativi: i soviet, i consigli di fabbrica, il controllo sulla gestione delle imprese; nelle campagne leghe rosse e leghe bianche organizzano occupazioni di terre per ottenere ciò che era stato promesso durante la guerra.

Diversi sentimenti maturano nella piccola e media borghesia italiana, che aveva voluto e fatto la guerra sull’onda di sentimenti patriottici e nazionalistici, vissuti spesso con sincera e genuina partecipazione. L’ideale della riconquista delle terre irredente e della affermazione dell’Italia sul piano internazionale, di un paese più forte e più rispettato, viene frustrato dall’atteggiamento delle grandi potenze vincitrici alla conferenza della pace. Viene coniato un nuovo slogan, quello della «vittoria mutilata». Si aggiunga una difficoltà notevole per questi reduci a reinserirsi nella vita civile: «Molti rimpiangevano – ha osservato Giampiero Carocci – il prestigio di cui avevano goduto da ufficiali e che era ben superiore di quello che avevano da civili. Molti, sia per idealismo che per necessità materiali, aspiravano profondamente ad una maggiore giustizia sociale. Anche essi, come i socialisti, erano indignati dello spettacolo degli arricchiti di guerra, dei cosiddetti “pescicani”. Ma odiavano i socialisti, da cui venivano offesi in quello che avevano di più caro: nella loro sensibilità di borghesi e di ex combattenti. Le sofferenze patite insieme nelle trincee non erano state sufficienti a far loro superare il tradizionale distacco se non addirittura il disprezzo, verso il proletariato».

La guerra non influenza soltanto l’atteggiamento dei reduci. Anche chi è rimasto a casa, chi ha vissuto i problemi del «fronte interno» subisce le scosse della guerra. Le donne costrette a lavorare in fabbrica, devono subire la diffidenza degli operai, devono provvedere, in assenza dei mariti al fronte, ai lavori dei campi, alla gestione delle case e delle famiglie. In questi anni di guerra le donne diventano protagoniste di scioperi e agitazioni, contro l’aumento dei prezzi, per il pane, per ottenere licenze ai mariti.

È, quindi, l’intera società italiana a subire i contraccolpi della guerra. L’apparato industriale è mobilitato; attraverso le commesse belliche alcuni complessi industriali crescono in misura eccezionale, realizzando grandi profitti. Lo Stato diventa il centro motore dell’economia nazionale, una sorta di cliente unico per questi complessi. Industrie come l’Ilva e l’Ansaldo crescono artificiosamente: la fine della guerra, con la sospensione delle commesse provoca la crisi. Il problema della riconversione industriale è uno dei più gravi dell’economia italiana del primo dopoguerra. Il rincaro crescente del costo della vita, il crollo della lira rispetto alle monete più forti quali il dollaro, la forte flessione nella produzione di grano e cereali, sono altrettanti elementi che vengono a colpire il potere d’acquisto di impiegati, salariati, braccianti, mentre i piccoli proprietari subiscono il peso più pesante del carico fiscale.

Questo il quadro, sia pure sommario, che caratterizzava la nuova e difficile realtà italiana del primo dopoguerra. Ha scritto Federico Chabod: «Il profondo sconvolgimento che la guerra ha prodotto nella vita italiana colpisce tutti gli interessi, offende tutti i sentimenti. Interessi colpiti: piccoli borghesi che cadono nelle strettezze economiche: grandi proprietari fondiari che cominciano a temere l’avvento del bolscevismo italiano e vedono con sgomento l’occupazione delle terre, gli scioperi, le agitazioni operaie. Sentimenti offesi: in primo luogo l’amor di patria, all’estero e nello stesso paese. Da parte delle masse si attende qualcosa di nuovo: s’è tanto parlato di pace, di maggiore giustizia sociale, tanto spesso, durante la lotta, si è fatto appello al popolo, garantendogli un avvenire migliore».

In questo contesto nuovo, così complesso e così carico di fermenti e di attese, in questo aspro clima di scontro sociale e politico si colloca la nascita del primo vero e proprio partito ad ispirazione cristiana nella storia del nostro paese. La palingenesi sociale che Sturzo aveva intravisto negli anni della guerra prendeva corpo, non solo in Italia, ma in tutta Europa. Il vecchio continente assiste al crollo di un assetto politico formatosi con le rivoluzioni borghesi e nazionali nel secolo XIX e consolidatosi negli anni successivi. La guerra spazza via la secolare monarchia asburgica e il trono degli Hohenzollern, secolari pilastri della conservazione in Europa; nuove nazionalità acquistano autonomia politica nei paesi balcanici; risorge la Polonia; gli Stati Uniti d’America fanno sentire sull’Europa il peso della loro potenza economica e dei loro ideali democratici, sintetizzati nei quattordici punti di Wilson; la vecchia Europa non è più il centro del mondo; la rivoluzione bolscevica diventa un punto di riferimento per una gran parte del proletariato europeo, che ovunque chiede il riconoscimento tangibile dei sacrifici sofferti in trincea, chiede una diretta partecipazione alla vita politica.

La guerra non era ancora finita e già Sturzo individuava i fermenti sociali che avrebbero caratterizzato il dopoguerra. In una conferenza a Caltagirone, il 26 agosto 1917, affermava: «Il popolo rifatto da questa immane guerra che torna dalle trincee o che è vissuto  nelle ansie della lotta, il popolo che nell’agone e nella lotta con la società borghese, già vecchia e traballante nei suoi cardini, la soppianterà in forza di princìpi sociali ispirati al cristianesimo da una parte e al socialismo dell’altra, il popolo saprà negare con la forza della nuova società che viene affermandosi, saprà negare le ragioni dei predomini armati». In un articolo sul Corriere d’Italia del 12 novembre 1918, pochi giorni dopo la fine della guerra, scriveva ancora: «Un fremito di riforme, nel disfacimento dei vecchi ordinamenti e nel crollo di poteri assoluti o quasi, ormai penetra in Europa; e come al ’31, al ’48, al ’60, le borghesie soppiantarono il potere feudale e militare, così oggi le democrazie domandano la loro partecipazione diretta alla vita pubblica, al di fuori di monopoli occulti o di poteri irresponsabili o di consorterie dominanti e di razze di predominio. Male si provvederebbe alla patria nostra – ammonì con tono quasi profetico – se pretesi comitati nazionali volessero assurgere a focolari di vita a sé, in dissenso, in contrasto col Parlamento stesso, per prendere in momenti difficili la direzione anche al di sopra del paese».

Sturzo ritiene ormai opportuno stringere i tempi. Le condizioni per realizzare il suo progetto politico erano ormai mature. La guerra aveva rimescolato le carte della vita politica nazionale; nel nuovo terreno aperto ad una più ampia partecipazione democratica delle masse c’era posto anche per i cattolici militanti, che potevano inserirsi nella vita pubblica come forza nuova, come componente essenziale per un rinnovamento dello Stato e della società italiana.

Il 17 novembre 1918, in una conferenza al Circolo di cultura di Milano, Sturzo parlò di «nuova èra di popoli, come quella della rivoluzione francese, nuova concezione statale oggi segue la guerra, nuovo fiotto di vitalità democratica; i popoli dicono la loro parola, finché nell’acquetarsi di violente passioni scatenate fra le masse si rassodi un ordinamento che diventi sintesi concreta dei valori maturati nella catastrofica vigilia delle armi (…). Nessuna nazione presto o tardi sfuggirà alla grande palingenesi: tali scosse ha patito e patirà ancora il corpo sociale vivente ed evolventesi: e la rivalutazione morale più che riflessa volontà viene fatta nella elaborazione istintiva delle coscienze singole e collettive». Ma il discorso di Milano andò oltre. Sturzo tracciò un vero e proprio programma di rinnovamento e di riforme. Attaccò la concezione panteista dello Stato sovrano e assoluto, «forza dominatrice e vincolatrice, norma e legge morale, potere incoercibile, sintesi unica di volontà collettiva», rivendicando le libertà individuali e collettive, la libertà religiosa, la libertà d’insegnamento, il decentramento amministrativo, le autonomie comunali e la libera organizzazione delle classi. Sturzo tornò anche sulla questione romana: ancora una volta non ne fece una questione di parte, ma la inquadrò nel più ampio contesto nazionale: la Chiesa aspettava «solo dall’Italia, nell’amore dei suoi figli, il riconoscimento pratico del diritto della libertà e indipendenza religiosa (…). E più che mai oggi – aggiunse – quando i vecchi presidi umani così compromessi, son caduti sotto il maglio della storia, spetta ai popoli il compito di rifarsi una coscienza morale per rivalutare nella sua realtà l’essenza del problema della libertà religiosa».

Con il discorso di Milano Sturzo poneva le concrete premesse del partito: era chiaro che le linee programmatiche da lui indicate erano le basi sulle quali dovevano porsi i cattolici come attiva componente del quadro politico italiano, non più come forza di riserva ai margini della vita parlamentare. La conclusione del discorso non ammette dubbi sulle sue intenzioni: «A questa nostra futura Italia dedichiamo anche noi le nostre piccole e modeste forze, quando tanti e tanti nostri fratelli le han dato il sangue e la vita nelle tragiche ore di una enorme guerra; quando il risveglio dei nuovi ideali e delle nuove tendenze ci deve rendere convinti di un dovere che non cessa sol perché la lotta cruenta è cessata, ma che ci chiama alle lotte del pensiero, alle lotte civili e politiche, con la stessa voce suadente della madre che fa appello alle virtù del figlio. E noi con lo stesso amore rispondiamo all’appello, se l’Italia, il cui nome desta ancora i fremiti della vittoria, se l’Italia, in cima ai nostri affetti ci trova preparati a contribuire in ogni campo ai suoi grandi rinnovellati destini».

Insomma, al di là dei toni lirici usati da Sturzo, che risentono del clima generale, carico di patriottismo, che contrassegnò ogni pubblica manifestazione in quel fatidico novembre 1918, Sturzo annuncia pubblicamente l’ingresso ufficiale dei cattolici nella vita pubblica italiana. Lo steccato che per decenni aveva diviso il mondo cattolico dallo Stato unitario, stava per essere abbattuto.

2. Il Vaticano e il nuovo partito

Tra gli ascoltatori presenti al discorso di Sturzo si trovava anche l’arcivescovo di Milano, il card. Andrea Carlo Ferrari, eccezionale figura di pastore, che non aveva mancato di sostenere il movimento cattolico milanese, dagli anni della prima democrazia cristiana in poi. Al termine del discorso il card. Ferrari chiese a Sturzo se gli argomenti da lui trattati avessero avuto un preventivo assenso da parte della Santa Sede. Sturzo rispose negativamente, riaffermando la sua tesi sulla opportunità di non compromettere le autorità ecclesiastiche in iniziative politiche che i cattolici, in quanto cittadini, ritenessero opportuno intraprendere. Il cardinale sembrò convincersi, ma consigliò comunque a Sturzo di recarsi presso il Segretario di Stato vaticano, il card. Gasparri, per ottenere la revoca ufficiale del non expedit, che ancora formalmente era in vigore e che rischiava di impedire ai cattolici il libero esercizio dei loro diritti politici. «Vada dal card. Gasparri – disse a Sturzo l’arcivescovo di Milano – esponga a lui tutto quello che lei ha detto qui; vada subito e gli parli chiaramente».

Sturzo partì per Roma, chiese udienza al card. Gasparri; vi si recò in compagnia del conte Carlo Santucci, uno dei superstiti delle riunioni di casa Campello del 1879, allorché si tentò la costituzione di un partito conservatore cattolico. Il Santucci era procuratore concistoriale e intimo amico del Segretario di Stato.

Pietro Gasparri fu tra le figure più significative ed emblematiche della storia della Chiesa nell’età contemporanea. Nato a Ussita, nelle Marche, nel 1852, amava definirsi, con una punta di civetteria, «pecoraro», richiamandosi all’industria della pastorizia esercitata dalla sua famiglia. Fu protagonista delle vicende della Chiesa nell’arco di ben quattro pontificati (da Leone XIII a Pio XI), coprendo negli ultimi due, per quindici anni, la massima carica politica vaticana, con uno stile per molti versi personalissimo e con un’abilità diplomatica non comune. Personaggio controverso, su cui i contemporanei e gli storici hanno espresso diversi e spesso contrastanti giudizi, che vanno dall’esaltazione, con accenti apologetici, specie nel clima di euforia che seguì la firma dei Patti lateranensi nel 1929, a critiche severe e feroci per le compromissioni con il fascismo. Sturzo lo definì uomo di eccezionale cultura giuridica e capacità diplomatica, «collaboratore ideale per Pio XI». Meno freddo e più convinto il giudizio che su di lui espresse don Giuseppe De Luca: «Da Leone XIII a Pio X, e poi soprattutto da Benedetto XV a Pio XI, dire il card. Gasparri non soltanto volle dire quell’uomo che egli era, un lavoratore agguerritissimo e fortunato, un ingegno stragrande, un cuore di provata fedeltà; volle anche dire un indirizzo, un tono, un’aria (…). C’è chi lo ritiene il Consalvi del ‘900, uomo dunque di un’arte consumata e somma, e c’è chi lo chiama il Giolitti della Chiesa, uomo di grande mestiere, ma mestiere; c’è al contrario chi rifiuta di calcolarlo altro che un segretario di Stato, come ce ne sono stati parecchi, unus multorum. Noi lasciamo alla storia la sentenza ultima. La sua politica, se è lecita una impressione di profano, è l’ultima politica europea di tipo tra veneziano e inglese, ispirata cioè dai fatti più che dalle idee, dal diritto più che dalla cosiddetta cultura».

Personaggio complesso, quindi, che da un esame superficiale potrebbe anche apparire contraddittorio. Ma, a ben guardare, gli atti e le decisioni di Gasparri rispondono ad una ben precisa linea politica. Formatosi alla scuola di Leone XIII, il segretario di Stato di Benedetto XV e di Pio XI si portò dietro per tutta la vita una mentalità e un costume che fu tipico della generazione vissuta all’ombra del pontificato di papa Pecci, che egli stesso definì «memorando nella storia della Chiesa». Da qui il suo fastidio, negli anni di Pio X, per quella politica di ripiegamento delle forze cattoliche, in una funzione subalterna al sistema giolittiano, che ebbe nel patto Gentiloni la sua più clamorosa espressione. Sostanzialmente, e sembra contraddittorio per l’uomo che fu tra i maggiori realizzatori della Conciliazione, Gasparri era e restò sempre un intransigente. Il suo conciliatorismo non era alla Tosti e alla Bonomelli, ove era vivo più che altro, il desiderio, l’aspirazione ad una comunione d’intenti fra moderatismo liberale e mondo cattolico, una intesa spirituale più che giuridica nel nome dell’unità italiana, con residui accenti di sapore neoguelfo. Il conciliatorismo di Gasparri assunse, invece, le forme di una specie di rivincita di porta Pia e tale rimase fino all’11 febbraio 1929. Una rivincita che annullasse la legge delle Guarentigie, facesse giustizia, sia pure sotto un aspetto più formale che sostanziale, del mal tolto e restituisse alla Chiesa una parvenza di potere temporale. Il moderatismo liberale, la massoneria, il socialismo rappresentano per Gasparri altrettanti ostacoli ai fini di una soluzione della questione romana in termini tali da consentire alla Santa Sede sovranità internazionale basata sul possesso reale di un territorio, sia pure simbolico. La sua insofferenza per un Giolitti – che aveva affermato che non avrebbe mai concesso alla Santa Sede un territorio, neanche grande come un francobollo – o per un Sonnino – che aveva imposto l’esclusione della Santa Sede dalle trattative di pace, con l’art. 15 del Patto di Londra – nasceva dalla convinzione che mai questi uomini, legati alla tradizione laico-risorgimentale, avrebbero fatto concessioni tali da rimettere in discussione i termini della questione romana e si sarebbero sempre opposti, con il loro non marginale peso politico e la loro influenza presso la Corte, ad una pur minima alterazione della sovranità nazionale.

Nel novembre 1918 Sturzo si trova costretto, suo malgrado, ad affrontare il giudizio di Pietro Gasparri e a sottoporre alla Segreteria di Stato il suo progetto di partito e il suo programma politico. Ad un primo incontro, di fronte alla richiesta di Sturzo, Gasparri apparve riservato, chiese tempo, disse di doverne parlare al Papa e invitò Sturzo a tornare dopo due o tre settimane. Poco prima di Natale il sacerdote siciliano era di nuovo in Vaticano. Lo stesso Sturzo ha più volte ricordato quell’incontro: «In quella udienza sentivo il cuore battermi con eccitazione. Quella sera subii un vero interrogatorio stringente, e durante alcuni minuti pensai che la causa era perduta». Sturzo esordì chiedendo se, in caso di formazione di un partito «fra cattolici», il Papa avrebbe tolto il non expedit. Ma Gasparri replicò chiedendo ulteriori chiarimenti: «Ammessa l’ipotesi che il Papa dica di sì, che politica farete voi verso la Chiesa?». «Nessuna politica contraria è chiaro – rispose Sturzo – ma anche nessuna politica speciale come partito. La questione romana è questione nazionale». Il cardinale incalzò: «Che politica farete voi? la politica di Sonnino o di Orlando?» Sturzo rispose che personalmente era contrario a Sonnino ma aspettava il responso del primo congresso del partito per precisare la linea politica da seguire. Di punto in bianco Gasparri chiese: «E che farà lei se il congresso le dirà di collaborare con Treves e Turati?». Sturzo rispose: «Sono pronto a collaborare anche con essi. Non ne avrei paura». Sturzo temette, con questa risposta di aver compromesso la sua causa, temette che di fronte ad una eventuale ipotesi di collaborazione tra cattolici e socialisti il Vaticano avrebbe frapposto ostacoli al nuovo partito. Invece la risposta di Gasparri fu rassicurante e sorprese lo stesso Sturzo. Sorridendo sarcasticamente, affermò: «Bravo! sarà meglio collaborare con Turati che collaborare con Sonnino: faccia pure quel che il congresso delibererà, ma eviti sempre di parlare a nome del Vaticano o a nome dell’Azione cattolica». E concluse: «Se lei farà bene sarà suo merito e se farà male il paese giudicherà». Ad una ulteriore richiesta di Sturzo circa l’abolizione del non expedit, Gasparri rispose: «Il Santo Padre provvederà quando e come crederà meglio».

Il Segretario di Stato vaticano sembra, quindi, cogliere l’importanza della nascita di un partito «fra cattolici». Sembra anzi non nascondere le sue simpatie verso questo partito, la cui impostazione al di fuori da responsabilità della Santa Sede e con un programma che, pur ispirandosi ai valori del cristianesimo non voleva essere espressione di una fede religiosa, trovava il suo consenso. Esistono, a questo riguardo altri documenti, a partire dalle stesse memorie di Gasparri: «Resta – egli scrisse – il mio favore al partito popolare. Le mie idee relative al partito popolare erano conosciute perché esposte varie volte nell’Osservatore; io ritenevo che non poteva chiamarsi partito cattolico, quasi che fosse l’esponente o il rappresentante della Chiesa cattolica e della Santa Sede in Italia e nel Parlamento ma che era un partito politico come tutti gli altri, con un programma che si avvicinava di più ai princìpi cristiani, nonostante alcune lacune. Non era neppur vero, come sosteneva il Giornale d’Italia che il partito popolare fosse voluto dal S. Padre Benedetto XV; il partito popolare sorse per generazione spontanea, senza alcun intervento politico della Santa Sede, né pro né contro».

È una versione confermata da altre fonti; da una lettera di Gasparri a Santucci del 1° aprile 1928, dove riafferma che la nascita del partito avvenne «senza intervenzione della Santa Sede» e da un brano autobiografico dello stesso Santucci, che scrive: «Il giorno stesso in cui fu definitivamente approvato dai promotori il programma del partito popolare e l’appello agli italiani, io reputai dovere, attese le nostre amichevoli relazioni, di recarmi dal card. Gasparri per leggergli quei documenti. Egli li percorse rapidamente, e poi disse: “Sta tuto bene; solo tenete fermo di non dare al partito nome di cattolico o di cristiano, ma d’Italiano, affinché non possa credersi che esso rappresenti il Vaticano, il quale è e vuole essere estraneo”».

Gasparri, insomma, sembra anche lui cogliere la nuova realtà del paese. Comprende che anche ai cattolici spettava un ruolo politico, che fosse espressione di un programma autonomo e non di derivazione ecclesiastica; che i cattolici, come cittadini di uno Stato, fossero portatori di istanze civili e politiche. Comprende che la soluzione della questione romana poteva essere trovata, in quel momento, nell’ambito della società italiana e del rispetto della libertà religiosa. Il partito di Sturzo avrebbe potuto svolgere su questo piano un ruolo non indifferente per far superare al paese vecchi pregiudizi anticlericali. Ma, questa iniziale benevolenza subirà negli anni successivi, soprattutto dopo l’avvento al potere di Mussolini notevoli incrinature. Il partito popolare non troverà più in Vaticano molte simpatie. Il fatto è che Sturzo da un lato e Gasparri dall’altro, pur trovandosi d’accordo alla fine del 1918 sulla impostazione da dare al partito, si muovevano su direttrici diverse. Gasparri mirava soprattutto alla soluzione della questione romana e seguiva questa sua politica con grande fermezza e spregiudicatezza; Sturzo mirava ad inserire i cattolici nella vita pubblica italiana come portatori di precise istanze ed interessi, come forza democratica capace di avviare un processo di riforma delle strutture civili, economiche e amministrative del paese. Quando le due direttrici vennero ad incrociarsi, per Sturzo ed il suo partito, come vedremo, la vita diventò molto più difficile con l’altra sponda del Tevere.

3. Le riunioni preparatorie

Gli scritti, gli articoli, i discorsi di Sturzo successivi alla fine della guerra gettarono le basi per una serie di dibattiti e di incontri che dovevano segnare l’atto di nascita del partito popolare italiano. Fra i primi ad intervenire in questo dibattito troviamo Stefano Cavazzoni, rappresentante fra i più noti del movimento cattolico in Lombardia, ex democratico cristiano, convertitosi poi alla linea clerico-moderata, fautore, durante l’età giolittiana di un raggruppamento cattolico di centro su ferme posizioni antisocialiste e favorevole ad intese con i liberali. Il 17 novembre il Corriere d’Italia pubblicò una lettera di Cavazzoni a Sturzo, nella quale, dopo aver esposto un programma di riforme sulla linea del pensiero cristiano-sociale, prospettiva l’ipotesi di un partito che fosse emanazione, o per meglio dire un ulteriore stadio di evoluzione dell’Azione cattolica, con fisionomia simile al Centro cattolico tedesco e su posizioni ben distinte rispetto alle forze più estreme. Sturzo rispose a Cavazzoni, sempre sul Corriere d’Italia, il 24 novembre: ribadì la necessità di distinguere funzioni politiche da attività religiose e di creare una coscienza di partito non attraverso gli organismi dell’Azione cattolica, ma nella coesione spirituale e nella consapevolezza di chi aderiva al programma e ai princìpi informatori del partito.

Negli stessi giorni, il 23 e 24 novembre, Sturzo aveva convocato a Roma, nella sede dell’Unione romana, in via dell’Umiltà 36, un gruppo di amici fra i più rappresentativi in campo cattolico. Intervennero alla riunione: Boggiano Pico, Borromeo, Campilli, Cavazzoni, Cingolani, De Rossi, Genuardi, Grandi, Longinotti, Mangano, Martire, Mattei Gentili, Merlin, Preda, Seganti, Tupini e Valente. I convenuti si trovarono d’accordo nel riconoscere la necessità di dar vita ad una forza capace di rappresentare i cattolici sul piano politico con fisionomia e responsabilità propria. Si stabilì, inoltre, di convocare per il 16 e 17 dicembre una «piccola costituente», per gettare le basi concrete del futuro partito. A questa assemblea vennero invitati quarantuno fra i maggiori esponenti del movimento cattolico, in rappresentanza di quasi tutte le regioni italiane. Convennero a Roma: Banderali (Genova), Bazoli (Brescia), Belloni A. (Roma), Benvenuti (Treviso), Bertini (Senigallia), Boggiano Pico (Genova), Borromeo (Roma), Bresciani (Brescia), Bussetti (Roma), Campilli (Roma), Cappa (Bologna), Caputo (Cosenza), Cavazzoni (Milano), Cingolani (Roma), Conio (Milano), Fascetti (Pisa), Grandi (Milano), Longinotti (Brescia), Mangano (Palermo), Martinelli (Como), Martinoli (Rho), Martire (Roma), Mattei Gentili (Roma), Mauri (Milano), Merlin (Rovigo), Olivieri di Vernier (Torino), Pecoraro (Palermo), Pesenti (Venezia), Pichetti (Brescia), Rodinò (Napoli), Rovasenda (Torino), Santucci (Roma), Scevola (Voghera), Seganti (Roma), Torriani (Torino), Uberti (Verona), Valente (Faenza), Vicentini (Ferrara), Vigorelli (Pavia), Zaccone (Torino). Personalità, a volte, distanti fra loro: si andava da un vecchio conservatore nazionale come Carlo Santucci, a sindacalisti come Valente e Grandi, ad ex democratici cristiani come Bertini, Mangano e Cingolani, ad esponenti di gruppi finanziari come Vicentini. Diversità di orientamenti e di posizioni che pesarono sulle discussioni attorno alla natura del partito: Cavazzoni, ad esempio, auspicava un partito di concentrazione fra i cattolici, lontano dalle due estreme; Tupini intravedeva una sorta di partito del lavoro; Longinotti voleva un partito di collaborazione fra le classi «nella giustizia sociale»; Vicentini sottolineava l’importanza del programma di ricostruzione industriale. Alla fine prevalse l’idea di dar vita ad un partito che rispondesse alla crescente attesa di rinnovamento del paese, sulla base di un «programma sociale, economico e politico di libertà, di giustizia e di progresso nazionale, ispirato ai princìpi cristiani» (art. 1 dello Statuto). Venne anche nominata una commissione provvisoria, composta da Sturzo (Segretario politico), Bertini, Bertone, Cavazzoni, Longinotti, Mauri, Merlin, Rodinò e Santucci, con il compito di definire gli atti costitutivi del partito. Uno dei problemi affrontati dalla piccola costituente fu quello del nome. In un appunto lasciato da Sturzo compaiono le quattro alternative sottoposte all’assemblea: partito popolare, partito popolare nazionale, partito popolare cristiano, partito democratico cristiano. La scelta definitiva (partito popolare italiano) rispondeva all’esigenza, più volte manifestata da Sturzo, di un partito che fosse emanazione del popolo, che evitasse anche nel titolo aggettivi che richiamassero motivi confessionali e che sottolineasse la sua cittadinanza italiana, evitando, comunque, accentuazioni di sapore nazionalistico. Nel discorso di Caltagirone del 1905, a proposito del nome da dare al futuro partito, Sturzo aveva affermato: «Noi ameremmo che il titolo di cattolici non fregiasse il nostro partito e i nostri istituti.  Che se urta al nostro senso estetico leggere in cima alle insegne delle nostre banche o delle nostre società di assicurazione e dei nostri giornali il titolo di cattolici, urta anche e più che urta confonde i termini il vedere che domani un partito politico o amministrativo assuma la ragione di cattolico».

4. L’appello «a tutti gli uomini liberi e forti»

Nel cuore della vecchia Roma, alle spalle del Pantheon, in via santa Chiara, una di quelle strade strette, con le sue ombre e le sue luci, che formano il dedalo suggestivo e ricco di testimonianze e di ricordi legati alla storia e alla vita della Roma dei papi, si trova l’albergo Santa Chiara. Questo antico albergo romano è passato alla storia come la sede che vide l’atto di nascita del «Partito popolare italiano». La sua fortuna è legata al caso. Qui alloggiava Luigi Sturzo alla metà di gennaio del 1919, allorché era stata convocata la commissione provvisoria che doveva definire l’appello, il programma e lo statuto del nuovo partito. Una indisposizione aveva costretto Sturzo a non muoversi dall’albergo, per cui, anziché nella sede dell’Unione romana, in via dell’Umiltà, la commissione provvisoria fu costretta a riunirsi nella stanza d’albergo di Sturzo. Dopo tre giorni di riunioni, il 18 gennaio 1919 vennero resi noti alla stampa l’appello al paese, lo statuto e il programma del partito.

L’appello del P.P.I. diretto «a tutti gli uomini liberi e forti» si caratterizza per forte tensione etica e civile, per il richiamo ai problemi e alla realtà del dopoguerra e alla attesa di pace, giustizia e libertà, per la richiesta di profonde trasformazioni politiche, amministrative e sociali. Il programma, in dodici articoli, entrava nel dettaglio di questi problemi: invocava l’integrità della famiglia e la tutela della moralità pubblica; la libertà d’insegnamento e la diffusione della cultura popolare e dell’istruzione professionale; il riconoscimento giuridico e la libertà dell’organizzazione di classe nella unità sindacale; una legislazione sociale, assistenziale e assicurativa a tutela del lavoro; lo sviluppo delle cooperative e della piccola proprietà; l’organizzazione e lo sfruttamento delle capacità produttive del paese; la colonizzazione del latifondo, le bonifiche, lo sviluppo del Mezzogiorno; il decentramento amministrativo con il riconoscimento delle funzioni proprie del comune, della provincia e della regione; la riorganizzazione della beneficienza, dell’assistenza pubblica e della previdenza sociale; la libertà e indipendenza della Chiesa nella esplicazione del suo magistero spirituale; la riforma tributaria sulla base dell’imposta progressiva; l’introduzione della rappresentanza proporzionale, del voto femminile e del Senato elettivo; la tutela dell’emigrazione e del commercio; il rispetto della Società delle Nazioni quale arbitro dei rapporti internazionali; l’abolizione dei trattati segreti e della coscrizione obbligatoria; il disarmo universale.

«L’appello a tutti gli uomini liberi e forti – ha scritto Gabriele De Rosa – è uno dei documenti più elevati e di maggior impegno civile della nostra letteratura politica, una carta d’identità perfettamente laica, senza riserve e pregiudiziali clericali di nessun genere, espressione singolare di una consapevolezza altamente liberale dei problemi di un moderno Stato democratico, uscito dal dramma del primo conflitto mondiale. Le ansie riformatrici, le aspettative pacifiste, le esigenze di un contenuto più sostanziale e popolare da assegnare alla funzione della democrazia parlamentare erano tradotte in un linguaggio misurato e moderno, accettabile da quanti confidavano nelle possibilità di una evoluzione graduale del nostro sistema sociale, senza passare attraverso la strada breve della rivoluzione. Era un fatto nuovo nella nostra storia politica, che un partito si presentasse all’opinione pubblica con una carta programmatica, con un documento, peraltro, che fondava la sua ragione di essere nella lezione ricavabile dall’esperienza, dal risultato di una prova viva consumata da un popolo intero durante la guerra e ricondotta nei termini di un impegno cauto e prudente e fare tesoro dei messaggi culturali più aperti e generosi della filosofia politica cristiana del periodo della guerra: dalla condanna dell’ “inutile strage” di Benedetto XV ai “14 punti” di Wilson».

Si trattò di un programma politico che, pur rifacendosi alle istanze programmatiche del movimento cattolico postunitario (si pensi alla tutela della famiglia, alla libertà d’insegnamento, al riconoscimento dei sindacati, al decentramento amministrativo, ecc.), per altri versi appare nuovo e riflette la realtà europea del primo dopoguerra, non solo per il richiamo al rispetto del principio di nazionalità e per la difesa dei popoli deboli contro gli imperialismi, ma anche per lo spirito accentuatamente democratico, per la totale assenza di richiami integralistici e l’abbandono di qualsiasi idea di fare del mondo cattolico elemento di blocco d’ordine antipopolare. Un partito, insomma, che tenta di inserirsi nella vita pubblica italiana come forza democratica e laica, con precise istanze civili, con una visione pluralistica e dinamica della società e delle istituzioni.

È indubbio quindi che la guerra influì e non poco sui modi e sui tempi della nascita del partito popolare. Ma è altrettanto indubbio che il popolarismo è anche il risultato di un preciso processo storico legato alle vicende del movimento cattolico italiano. Scrive ancora Gabriele De Rosa: «Guerra o non guerra, sarebbe stato solo questione di tempo. Difatti, non fu tanto il conflitto mondiale a provocare la nascita del partito popolare, quanto l’evoluzione del sistema sociale, prodotto dalla rivoluzione borghese, che aveva liquidato per sempre la formula dell’alleanza trono-altare, che aveva detemporalizzato la politica della Chiesa lasciando le plebi e il proletariato a contendere da soli contro il capitalismo aggressivo della borghesia industriale e contro l’impoverimento delle campagne. Non erano più problemi della beneficienza e dell’économie charitable: il vescovo non avrebbe potuto essere né capolega né capopartito. Insomma, dietro la nascita del partito popolare non vi fu, né avrebbe potuto esservi, una volontà chiesastica, quale che sia, né il fatto occasionale, per imponente e catastrofico che sia stato, della guerra. Avremmo avuto, con o senza intervento nel primo conflitto mondiale, un partito nazionale di cattolici. Però non ci sentiamo di escludere l’influsso che ebbe la guerra sul modo con il quale nacque ed operò il partito di Sturzo. E questo fu indubbiamente grandissimo».

In sostanza, il nuovo partito fu la presa di coscienza, in chiave democratica, di un movimento che aveva avuto varie e molteplici esperienze: dall’intransigentismo protestatario e temporalista, al conciliatorismo, alla stagione della prima democrazia cristiana di Romolo Murri, al centrismo di Meda, all’esperienza delle leghe bianche contadine di Guido Miglioli, a tutta una fitta rete di associazioni religiose, culturali, sindacali, mutualistiche, cooperativistiche, di giornali, scuole, istituti di credito. Il popolarismo fu, per molti aspetti, il coagularsi di iniziative, programmi, progetti idee in un organismo politico nuovo e moderno. Sturzo fu il realizzatore di questo disegno, di un partito, cioè, concepito e vissuto secondo una precisa ispirazione sociologica e politica, un partito che nasce non soltanto attraverso elaborazioni teoriche ma a diretto contatto con la realtà del paese e con l’attenzione ai suoi problemi. Ma il passaggio dal vecchio movimento cattolico al partito popolare non fu un processo meccanico e lineare: fu il risultato di diversi elementi e condizionamenti storici che favorirono la nascita e l’affermazione di quel partito e non di altri.

L’area sociale alla quale guardava il partito popolare era molto ampia, andava dal mondo contadino nelle sue molteplici articolazioni (con particolare attenzione ai fittavoli, ai mezzadri e ai piccoli proprietari), agli artigiani, alla piccola e media borghesia urbana (dagli insegnanti agli impiegati), ai ceti professionistici. Più limitata l’influenza nei settori operai, se si escludono i tessili e i ferrovieri. Le aree geografiche nelle quali il P.P.I. raccoglieva i maggiori consensi erano le regioni centro-settentrionali (in particolare il Veneto, la Lombardia, la Toscana, le Marche), regioni nelle quali preesisteva una solida rete organizzativa del movimento cattolico e dove più intensa ed efficace era stata l’azione rivendicativa nelle leghe contadine e dei sindacati bianchi. Più debole la presenza del partito nel Sud e nelle isole, se si eccettua la Campania e la Sicilia.

Intento di Sturzo era di creare un raccordo, una sintesi tra masse lavoratrici e borghesia, «nel tentativo – affermò – di portare una parola di giustizia nella valutazione sociale, etica ed economica del lavoro». In sostanza, l’«utopia politica» di Sturzo mirava, secondo il De Rosa, a coagulare «le numerose frange di scontento al Nord e al Sud, le forze sociali che generalmente sono rimaste emarginate dalla scelta giolittiana della democrazia industriale. Partito cattolico, dunque, che diventa partito di ceti medi e di mondo rurale declassato, partito pazientemente raccolto nell’ambito di un movimento di riqualificazione democratica e popolare delle classi cosiddette subalterne, non più fuori ma dentro la dialettica dello Stato liberale». In sostanza, il partito popolare intendeva dare diritto di cittadinanza e coscienza democratica a categorie sociali rimaste al di fuori dal processo politico ed economico unitario: fossero essi quei cattolici che non avevano approvato i modi con cui si era arrivati alla soluzione della questione romana e che attraverso l’astensionismo e l’intransigenza avevano inteso manifestare la loro protesta, i piccoli e medi proprietari terrieri che avevano pagato di persona i guasti della politica protezionistica dei governi liberali, i contadini, mezzadri, fittavoli, braccianti angariati da pesanti condizioni di lavoro. Il partito di Sturzo non è un partito rivoluzionario, collettivista, libertario o populista; non mira a ribaltare gli schemi della società borghese utilizzando l’organizzazione delle masse. La sua è una visione prevalentemente riformista, con precise connotazioni antistataliste, liberiste e regionaliste, con il non nascosto intento di ricostruire, attraverso la diffusione della piccola proprietà contadina, un tessuto civile animato e sorretto dalle tradizionali virtù cristiane presenti nel mondo rurale. Il P.P.I. si assumeva quindi il compito di farsi portatore di valori sociali, politici e religiosi, attraverso una sorta di pedagogia civile diretta ad un mondo contadino e ad una piccola e media borghesia disabituata alla democrazia partecipativa e spesso preda di suggestioni moderate e clientelari, se non autoritarie.

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