Cronaca palermitana – La giovane musica (1962)

di Gianfranco Zàccaro – «Mondoperaio», ottobre 1962, pp. 48-53

Due volte all’anno – dicevamo la volta scorsa – càpita, in Italia, di ascoltare, con impegno e senza restrizioni, della musica contemporanea. Approfittiamo di una di queste due occasioni per dare un quadro di quel che succede oggi nel mondo musicale. Tanti sono gli ostacoli che, altrimenti, questi giovani sono costretti ad affrontare – spesso senza successo – solo per essere ascoltati e discussi, che ci sembra più opportuno – a costo di essere noiosi e prolissi – commentare l’«avvenimento» per via analitica.

La «Terza Settimana Internazionale Nuova Musica», che si è svolta a Palermo dal primo all’otto ottobre, si è dimostrata, contenutisticamente, assai più interessante del previsto; a tal punto, anzi, che la città siciliana – priva dell’eclettismo che caratterizza festivals musicali noti come quelli di Varsavia e di Venezia – può considerarsi, dal punto di vista dell’avanguardia, la più aggiornata del mondo.

«Nuova musica»: cominciamo a distinguere i significati dell’espressione, e a rifarci, ora, a quello più lato, a quello che implica una – come che sia – posizione d’avanguardia, riservandoci di tornare sul termine (Neue Musik) così come viene considerato da alcune correnti estetiche estremiste.

Saltando i mediocri e i muti (retaggio ineliminabile di ogni festival di novità), passiamo a distinguere in sei categorie i compositori meritevoli di interesse; categorie corrispondenti alla direzione espressiva e ideologica del loro mondo.

Alla prima appartengono i musicisti che si usa chiamare «impegnati». Il termine, in sé, ha un significato molto ampio, e sarebbe applicabile a ogni artista cosciente e congruente. Però, dato che i termini stessi acquistano significato seguendo non già la loro radice etimologica, bensì l’uso che se ne fa, possiamo chiamare «impegnati» quei musicisti che, seguendo la loro direttiva ideologica, dalla vita reale traggono linfa, e ad essa si rivolgono nel loro messaggio. Tipico esempio: Luigi Nono. Per il quale, il centro motore che determina la creazione dell’opera, è una spinta emotiva che proviene dalla partecipazione commossa e aretorica alla realtà. A tutta la realtà: da quella politica e sociale – Intolleranza 1960 – a quella intima e delicata – Canciones para Silvia (Silvia è la bambina del compositore) -; dalla trasfigurazione di un canto d’amore inteso con tutta la distillata forza della carne – Cori di Didone – a un particolare momento di cui si coglie l’allucinante tragedia, il canto di rivendicazione dell’uomo che è insieme la speranza di una vita impiantata sopra basi migliori – Sul ponte di Hiroshima: canti di vita e d’amore -. È, questa, una delle ultime opere di Luigi Nono che è stata presentata a Palermo. Il messaggio del compositore veneziano riesce a rivolgersi a tutti gli strati umani; le sue soluzioni linguistiche non sono il frutto di un atteggiamento stabilito e voluto «a priori», ma la realizzazione di un «verso» sempre intimamente sentito, e via via giunto a sempre migliore maturazione. L’aver individuato e sviluppato questo «verso» poetico è il pregio migliore di Luigi Nono che, non ancora quarantenne, ha raggiunto una precisa dimensione storica, un posto ben definito nella società.

L’altro musicista che può considerarsi, in questo senso, «impegnato» è il trentunenne fiorentino Sylvano Bussotti. Lo avevamo conosciuto come raffinato e inutile esponente dell’ultimo «neodadaismo»; lo abbiamo ritrovato marxista convinto e commosso rievocatore di Marcello Elisei, il giovane lasciato morire nelle carceri romane.

Molta differenza separa Bussotti da Nono; questo è il più diretto prosecutore, in chiave attuale, della linea espressionistica (Schönberg, Berg): raffinata, compiuta, inequivocabile; quello giunge alla soddisfazione del suo «impegno» di uomo sociale tramite l’adottamento dei mezzi espressivi «neo-dada» (un trattamento strumentale «spappolato», l’uso di «gesti», lo sviluppo, in senso necessario, di rumori provenienti da oggetti varî, eccetera): esperienza coraggiosa, atta a ingannare – specie dopo la prima audizione – più d’uno sulle reali intenzioni del compositore, ma alla fine, dopo un attento e spassionato esame, assai interessante: notevolissima anzi, e indubbiamente efficace.

Sylvano Bussotti è un musicista da seguire con attenzione: ha notevoli numeri inventivi e organizzativi che finalmente è riuscito a togliere dalla pura vanità e a subordinare a una linea poetica ben determinata ed essenziale. È immaturo, forse ancora un po’ confuso, ma senz’altro meritevole. Insistiamo su questo punto perché ci siamo arrivati dopo aver – anche pubblicamente – osteggiato il compositore; perché abbiamo notato una parte della critica – anche migliore – fermarsi al fatto meramente esteriore del «gesto» (del rumore suscitato da un barattolo), condannarlo come se fosse ancora vano, e non discuterlo tenendo presente la sua efficacia o meno; perché, in generale, qualsiasi esperienza sonora è accettabile una volta determinata da una reale necessità espressiva.

Premesso che questa nostra divisione in «categorie» ha solo valore di comodo, passiamo a illustrare la seconda, quella che può comprendere musicisti volti alla ricerca serena di un linguaggio; musicisti sicuri, il cui cammino si svolge all’insegna della più corretta onestà, e che sono destinati a rappresentare il convogliarsi – inconscio forte, perché avvenuto sulla base di una coltura e di una problematica pienamente assimilate – delle esperienze più fattive della avanguardia di ieri, valide oggi come sanzione di un mondo tutt’altro che esaurito: eminentemente contemplativo, sereno – come s’è detto – e frutto di una scelta che, se ha perduto il suo dolore, ha conservato intatta la sua attuale freschezza. Da Palermo abbiamo notato:

Ivan Vandor (classe 1932), che ha presentato la sua prima opera: il Quartetto per archi premiato col massimo riconoscimento dalla S.I.M.C. (Società italiana di musica contemporanea). È una opera che risente senza dubbio dell’influenza venutasi a determinare attraverso la linea Bartòk-Petrassi. Una linea che Vandor ha scelto non per povertà linguistica, ma per attiva e cosciente accettazione; una linea che ignora le esperienze più avanzate solo perché può ancora vivificare quel determinato tipo di «discorso» musicale: il dialogo sincopato, serrato e smozzicato degli strumenti – che può considerarsi tuttora come una delle migliori esperienze dell’atteggiamento critico nei confronti del «classico».

Il berlinese Stefan Wolpe (classe 1902) è un anziano, e si sente! Cristallizzatosi in una determinata problematica espressiva – una contemplativa presentazione di quadretti miniaturistici uniti da un’attendibile logicità -, il musicista perfeziona, lima la sua scelta guidato da una raggiunta maturità e da un’indubbia sapienza musicale. Il risultato – Piece in two parts – è perfetto: quei «quadretti» risultano compiutissimi e animati da tratti vivi e vitali; il tutto «scorre» ben incanalato da una visione generale sicura di sé e affatto priva di sbalzi.

Lo svedese Bo Nilsson (sui trent’anni) è pervenuto alla medesima maturità di Wolpe. Il suo sforzo è tutto rivolto a un rigore discorsivo che si presenta altamente essenziale nei suoi tratti scheletrici. La «pulizia» del materiale sonoro adottato da Nilsson dimostra la possibilità di sopravvivenza di un linguaggio – obiettivamente «superato» da altri risultati – ove esista una perfetta convivenza di intenzioni fra l’autore e, appunto, il linguaggio scelto, quale che esso sia. Il periodare di Szene I è come un piccolo ruscello, il cui corso riesce a rimanere limpido tra tenere tortuosità che sono – non già previste, bensì – essenziali nella loro realtà, purché si consideri con obiettivo distacco critico[1].

Del tedesco Roland Kayn (1933) ascoltammo recentemente, a Venezia, Phasen, un commosso omaggio alle vittime di Auschwitz. Il pezzo – per novanta strumenti a percussione e per contralto – riproponeva alcune soluzioni di Edgard Varèse, vivificate in una bruciante partecipazione corale che era insieme un «canto politico» e una soluzione strumentale – tutto sommato – nuova. A Palermo abbiamo ascoltato Vectors, un lavoro di poco precedente Phasen ma privo di quella commossa ispirazione che aveva giustificato il pezzo veneziano.

Si avverte, in Vectors, l’esistenza di forze che non sanno dove convogliarsi, dove (in quale «oggetto») sfogare la loro carica emotiva; tuttavia, questa esigenza potenziale contribuisce a nobilitare, pur fra qualche scompenso, il discorso in sé, a renderlo più pregnante, più pieno di realtà poetica. Kayn però, stando ai risultati in nostro possesso, è grande solo quando si fa poeta di una ideologia, di un credo, di un atteggiamento politico. La minoranza – nel giovane compositore tedesco – di pezzi come Phasen (che, forse, può essere un’eccezione – vera autentica, ma pur sempre eccezione – rispetto a un’altra tipologia espressiva; cosa che non è in Bussotti, ad esempio) ci impedisce di ricordarlo fra i compositori tipo Nono e Bussotti medesimo.

Molto sicura la vena espressiva di due italiani: Giacomo Manzoni (1932) e Gianfranco Maselli (1929). Il primo ha presentato Studio per 24, mentre il secondo, Due pezzi per orchestra da camera.

Il giudizio finale che unisce – idealmente, senza alcun impegno di constatazioni di comunanza ideologica, politica o altro – i compositori menzionati è, si diceva, positivo. E mentre si assiste al venturoso balzo in avanti di persone in cerca di altro, constatare questa raggiunta maturità espressiva non è un riposarsi, un rinunziare alla lotta: solo un’ulteriore prova della bellezza del mondo, formato da individualità diverse: una soddisfazione derivata dalla possibilità del raggiungimento di un fine (il «dire qualcosa», appunto) attraverso i mezzi più disparati.

***

Due musicisti si impongono ora all’attenzione: l’argentino-tedesco Mauricio Kagel (classe 1931) e il romano Franco Evangelisti (1926); e non già da Palermo (tanto più che il pezzo di Evangelisti – Random or not random – non è stato eseguito per un grave capriccio dell’orchestra), ma da parecchio tempo, da parecchi esami positivamente superati con altrettanti, importantissimi lavori. Cos’è che differenzia questi due musicisti dagli altri e che ci consente di parlarne in termini quasi esaltati? Presto detto: i risultati cui perviene la loro integrale ricerca di «nuove sonorità».

Sono due musicisti estremamente «impegnati»: nei riguardi di un risultato proveniente non già da un contatto con la realtà «obiettiva», col mondo, con la vita «nostra», bensì da una realtà, da una vita «loro», estremamente, carnalmente legata alla loro condizione di artisti: la realtà acustica, imprescindibilmente intesa come divenire, come continua spinta in avanti. Se scendiamo nel particolare, dobbiamo dire che la cosa, così come l’abbiamo enunciata, tocca più da vicino Evangelisti che Kagel, il quale tende, da una sonorità presa in sé, a sviluppare una nuova successione, un nuovo discorso, un nuovo periodo. Per entrambi, comunque, è valida la definizione di «impegnati»: in una lotta (difficile e non sempre riconosciuta) capace di rivalutare completamente, e in maniera affatto nuova, l’ascolto: al di fuori, radicalmente, di ogni addentellato relativo al modo di ascoltare di ieri o di ieri l’altro. E anche «di domani»: è l’«oggi» – congruente e dalle radici ben salde – ciò che interessa ai due musicisti[2].

Ci preme, a questo punto, porre l’accento su una caratteristica che inficia il mondo della musica contemporanea, colpendo in particolar modo i suoi rappresentanti più timidi. Parliamo dell’imitazione, o, meglio, del desiderio di «adeguarsi» ai dettami della tecnica più avanzata: naturalmente senza necessità.

Stiamo adottando solo un criterio estetico; rigettiamo quindi gli imitatori a oltranza per porre l’attenzione su quei musicisti che, in possesso di una vena autentica, hanno, nell’esprimerla, quasi un pudore verginale, e la mascherano con vesti che finiscono con l’andarle troppo larghe (o troppo strette). La musica non è una corsa veloce in cui un record vale solo finché non viene ulteriormente abbassato. Tutte le «sintassi», sono, in potenza, buone, perché su una di esse – quella scelta – si accentri l’imprescindibile fuoco della necessità estetica. Ci spiace fare questo appunto polemico che tocca alcuni critici; i quali, non comprendendo che il loro lavoro comincia solo là dove già esiste un materiale ordinato, creato, e assumendo le vesti del legiferatore che «guarda al futuro» (il presente, solo il presente conta!), finiscono col falsare le prospettive e col confondere le idee a più d’un musicista.

A Palermo abbiamo notato due musicisti del genere «inibito»: lo spagnolo Luis De Pablo e il palermitano Girolamo Arrigo.

Del primo sappiamo poco: che è nato nel 1930, che è presidente delle «Juventudes Musicales Españolas» e che, probabilmente, giace in qualche prigione franchista. La sua opera presentata – Glosa, su testo di Gòngora – non è priva di una certa grazia che si concretizza in termini essenziali, scheletrici quasi; però, al momento di lasciare le scorie di officina e di liberarsi tranquilla e sicura di sé, perde tutto: la fiducia, la sicurezza, e, quindi, la poesia. Paura di sbagliare? Forse. La caratteristica, comunque, del compositore che con un occhio guarda i suoi pentagrammi e con l’altro un ossessivo pubblico di Minossi come per dire «Va bene così?», «Ho sbagliato: scusate tanto; mi rimangio tutto»; questa caratteristica, c’è.

Lo stesso dicasi del trentaduenne Arrigo, che ha avuto il buon gusto – di weberniana memoria – di riproporre uno strumento come la chitarra, e di affidargli nientedimeno che una Serenata. Ben messa, graziosa, ma un po’ malata. Non di «paura», come il lavoro di De Pablo, ma di ibridismo.

Le concessioni, difatti, che Arrigo fa alla «maniera» (alla sintassi «avanzata» intesa nella sua esteriorità), oltre a non essere necessarie, guastano notevolmente il tenue ma grazioso filo di lirismo che aveva tenuto in piedi il lavoro, gli dànno una dimensione non sua, e lo collocano in un mondo che, se non è il classico inferno lastricato di buone intenzioni, certo si avvicina molto al paradiso perduto, banalmente perduto.

Un discorso a sé merita Karlheinz Stockhausen; e non tanto per la sua indiscutibilmente geniale natura musicale (che, del resto, non è l’unica a essere tale), quanto per gli ondeggiamenti continui fra produzione accettabile e produzione inaccettabile.

Come Boulez (rappresentato a Palermo dallo splendido Livre pour quatuor: una commemorazione; un esempio di musica d’avanguardia che risale ormai al 1949) e più di Nono, il trentaquattrenne Stockhausen è uno dei pochi leaders della giovane musica che sia riuscito a interessare, nel senso più totale, la critica di tendenze più disparate. Non è questo un segno di merito particolare, ché tutti, ormai, conoscono i metodi estetici usati da certa critica, ma senz’altro un fatto sintomatico. Di – almeno – una tremenda sicurezza di se stesso, di un risultato capace di interessare a prima vista, di una linea poetica discutibile con tutti i mezzi che si hanno a disposizione.

Complicatissimo e ricercato teoreta, Stockhausen perviene a risultati sonori assai semplici: a una linea discorsiva che, pur non arrecando nel suo svolgimento totale grandi elementi di novità, può definirsi autentica in virtù di determinati momenti sonori presi nella loro particolare essenza e nella loro, più particolare, successione.

Il risultato finale dà quasi sempre il senso di una essenziale e centrata cura dell’espressività; esprimere nuove e – soprattutto – attendibili sensazioni, situazione sonore. Bene: contrariamente a quanto ci ha permesso simili rilievi positivi, il nuovo pezzo per pianoforte di Stockhausen – Klavierstück X – ci è apparso completamente scentrato: narcisistico e inutile, più che altro. Una ricerca di nuove sonorità che si impiantano sì, ma piuttosto gratuitamente (come se io, per rinnovare la mia sintassi, abolissi o mutassi le concordanze) e, soprattutto, senza un filo di logica espressività capace di unirle l’una all’altra. Un impazzamento, una dimostrazione di grande capacità tecnica (tastiera percossa con le mani e coi gomiti), ma anche una pericolosa staticità estetizzante[3].

E viene da sé il discorso sul pianoforte, strumento creato – a differenza di molti altri – durante i primi albori del preromanticismo, e timbricamente congegnato in modo tale da corrispondere solo e unicamente alle esigenze espressive di quel periodo nel suo sviluppo in senso totale (classicismo – romanticismo). Strumento, quindi, tanto ricco quanto scarsamente esteso nel tempo, totalmente cristallizzato sopra determinati risultati; e povero, poverissimo (anche se oggi viene usato come uno strumento a percussione) appena posto di fronte ad altre esigenze espressive.

***

Resta, ora, da parlare di quel gruppo di musicisti che rientrano nella specifica categoria della Neue Musik. «Nuova musica»: riformatrice del mondo, latrice di un nuovo messaggio e, insieme, di una protesta: contro la «vecchia musica». Ora, premesso che «vecchia musica» è quella firmata da reazionari incalliti come Bach, Beethoven, Brahms, Mahler, Schönberg eccetera, occorre precisare che i nostri profeti intendono impiantare il mondo acustico su nuove basi. Cioè eliminando il modo normale di ascoltare. Perché, come si ascolta(va)? Male. D’accordo, ma come provvedere? Eliminando l’ascolto. Cioè? Spazzando via tutti quei detriti che vanno sotto il nome di «comunicazione», «posizione ideologica» e via seguitando.

Impiantando cioè – seguitiamo a dire – una musica che sia asemantica (che non comunichi), organizzando un materiale al di fuori, appunto, dei fini comunicativi, scherzando con esso al di là di qualsiasi addentellato che non sia gioco, disposizione astratta eccetera[4].

Questa scuola si riallaccia all’americano John Cage e, più alla lontana, al movimento «neodada»: si avvale, cioè, di mezzi ormai vecchiotti, cade in palesi contraddizioni (vuole essere asemantica e, al tempo stesso, contenere una protesta), e cancella, con uno sberleffo la cui qualunquistica insolenza non è diminuita con la sua vecchiezza, tutto ciò che, da sempre, gli uomini hanno fatto per gli altri uomini.

Vi sono tanti tipi di messaggio: e non è detto che questo «verso» comunicativo debba essere adottato a-priori e senza discriminazione. Quelli della neue musik, però, commettono una doppia indegnità: da un lato, difatti, assumono (proprio come la «musica con le dande») una direttiva al di fuori del vero e proprio processo creativo (dicono, cioè, prima di comporre: «io devo comporre così»), e, dall’altro, guardano al mondo con un’insolenza che non può essere benevolmente perdonata come quella di quaranta anni fa, si pongono in una posizione idiotamente e ostilmente isolata, tolgono alla società il diritto di essere tale: composta, cioè, da uomini in movimento, in lotta, in superamento. Degli anarchici privi di disperazione cattivante, dei dissociati, dei rifiuti non da rigettare passivamente o con sacri sdegni (come ha fatto, commettendo un gradissimo errore e contraddicendo il suo credo marxista, Luigi Nono), bensì da smascherare con le loro stesse armi, evitando (naturali e violente) reazioni che soddisferebbero la loro frigida natura intellettualisticamente sadica e masochista.

A Palermo questa musica era rappresentata: da John Cage e da alcuni suoi squallidi epigoni.

Palermo – come vedremo più sotto – opera, per il suo festival, scelte democratiche: offre, cioè, possibilità a tutti di esprimere la propria voce (naturalmente nell’ambito della musica di avanguardia). Nulla di meglio, di più desiderato. Questa liberalità, tuttavia, implica coi compositori un rapporto di fondamentale onestà; o meglio: non può prescindere dal suo ineliminabile significato sociale (e non stiamo a rifare la storia crudele delle stupide esclusioni della musica contemporanea dal giro dei normali concerti). Bene: tale «contratto» è rotto proprio da «quelli» della neue Musik, che, come s’è detto, sono contrarî a qualsiasi «significato» della musica medesima, a qualsiasi realizzazione del rapporto fondamentale per il quale l’uomo ha diritto di aprire bocca e di pronunziare qualcosa.

Se a queste considerazioni aggiungiamo il misero traviamento di alcuni giovani – altrimenti tutt’altro che stupidi – che, per mania di essere attuali, scelgono indiscriminatamente il nuovo, quale esso sia, ebbene, si dovrà giungere alla conclusione più evidente: circoscrivere questa musica.

Non eliminarla: non siamo in una parrocchia, né, tanto meno, amiamo discutere con le bombe al plastico; vogliamo soltanto combattere una deleteria tendenza e recuperare, ove possibile, ingegni che potrebbero, altrimenti, essere ben utili alla musica.

Circoscriverla vuol dire – da parte degli organizzatori – prendere una posizione che è virile e coraggioso impugnare una realtà difficile, qualunquistica e lubrica; vuol dire – da parte degli altri: musicisti, critici, pubblico – superare dialetticamente un elemento disgregatore che si presenta con le facili e ingannevoli vesti di rivoluzionario. Per questo non perdoneremo mai a Luigi Nono di aver sottaciuto la sua posizione della società, di aver assunto l’aspetto di un ibrido incrocio fra un muto accademico e un crudele, ingiusto stalinista, e di essersi ritirato – «sdegnatissimo» – dalla battaglia.

La musica asemantica – lo si voglia riconoscere o meno – rappresenta la parte peggiore della società borghese: in cerca di diversivi, di qualunquistici giochetti, di aproblematiche evasioni, e, nel contempo, di crudeli dispersioni reazionarie che annegano, soffocandola, la voce dell’uomo. Dunque esiste; negativamente ma esiste. E va combattuta.

Faccia attenzione Palermo: democrazia non significhi anarchia; obiettività non significhi qualunquismo. Si rappresentino questi autori, ma non accanto agli altri. Proporli e tacere, può significare approvarli, e perdere matematicamente l’appoggio di quanti (siamo in molti, fortunatamente) credono nel mondo, negli uomini che lo compongono.

Molti – critici e musicisti – continuano a scandalizzarsi del dislivello culturale che, in seguito alla nascita della «Settimana», si è venuto a determinare a Palermo. Vero: non occorre sfogliare le opere di Tomasi di Lampedusa e di Brancati per rendersi conto del fatto che le caratteristiche culturali dell’alta società sono rimaste – traslate, in proporzione inversa, nei nostri tempi – quelle illustrate da Verga e da De Roberto. Ma è anche vero che esistono nuovi fermenti, e proprio in una delle classi che secoli di malgoverno lasciarono in balia di se stessa.

Quest’anno – a differenza degli altri – numerosissimi giovani affollavano le sedi dei concerti: è per loro, in fondo, che esiste il G.U.N.M. (Gruppo Universitario Nuova Musica), la «Settimana», la «Nuova musica», la «musica giovane». E la risposta c’è stata: con la partecipazione, non solo, ma con la discussione, spesso, come deve essere, aspra e violenta, irrazionale, ricca di interventi dettati dall’intuito più che altro; ma c’è stata.

C’è stato, finalmente, l’urto fra cultura tradizionale, spesso morta o impiantata su basi sterili, e prodotto nuovo, attuale, caldo e pregnante. La «Settimana», insomma, non è stata solo un convegno di musicisti e di gente venuta «da fuori».

E la presenza di tanta gente giovane – abituata a Beethoven, a Verdi, a Puccini – è forse il frutto migliore della benemerita fatica intrapresa dagli organizzatori.

D’accordo: molto, moltissimo resta ancora da fare: impedire scatti anarchici delle orchestre (tipo quello che ha determinato la non esecuzione del lavoro di Evangelisti), abolire culti della personalità che suonano come una palese ingiustizia verso gli altri musicisti, distillare maggiormente le scelte culturali; ma il più è stato fatto.

E Palermo, oggi, è una roccaforte della musica contemporanea.


[1] Quel che abbiamo detto – e che diremo più sotto – su molti musicisti, vale per le opere che conosciamo; di più – stante la scarsa circolazione della musica contemporanea – non possiamo sapere.  Questo Bo Nilsson, ad esempio (e ce ne siamo ricordati solo ora), ha scritto anche una Szene III, eseguita lo scorso anno a Darmstadt, capitale della «Nuova Musica». Ebbene, in Szene III Bo Nilsson imbufalisce, diventa un Narciso vestito da gorilla. Per farla breve: nell’ultima parte si affida totalmente al caso, non indica, sulla partitura, altro che un elenco degli strumenti, e dà «via libera» ai suonatori per 120 secondi. Non solo, ma pone in sala altoparlanti a tutto volume latori di almeno dieci registrazioni (una sinfonia di Beethoven, una canzone di Modugno – o del suo corrispondente scandinavo – e via dicendo a piacere…) simultaneamente.

Per giudicare Bo Nilsson, preferiamo tener conto di Szene I.

[2] Anche per Kagel… Non possiamo valutare i suoi «gesti» che accompagnano l’esecuzione, dal momento che, nella musica, ciò che non è acustico e non determinante il risultato finale, non può interessare.

[3] Intendiamoci: di Klavierstück X non disapproviamo l’«aleatorietà» (la facoltà, cioè, lasciata all’interprete di determinare personalmente i silenzi e la successione delle singole parti), bensì la nullità discorsiva dell’insieme.

[4] Vedi, per tutti, l’articolo di Heinz Klaus Metzger – uno dei più importanti e preparati «leaders» teorici del «neo-dadaismo» musicale: John Cage o della liberazione («Incontri Musicali»; n. 3; agosto 1959).

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