Tammaro De Marinis e il culto del libro

di Vittore Branca – In “Ponte Santa Trinita. Per amore di libertà, per amore di verità”, Marsilio, Venezia 1987, pp. 145-148.

C’era qualcuno a Firenze che, fra le due guerre, poteva ospitare nella sua villa fiesolana Croce e Gentile, Salvemini e Maria José e Mussolini. Non era fiorentino, ma napoletano puro sangue. Non si occupava né di filosofia né di politica, ma di libri: con una passionale passione che era ragione di vita, anzi di una vitalità senza posa fino al traguardo del novantaduesimo anno su cui cadde. Mi investì da Olschki, in vigilia di guerra, col suo brio aggressivo e con la sua generosità tutta partenopea: «Ma Lei che studia il testo dell’Amorosa Visione del Boccaccio, non ha ancora visto il preziosissimo manoscritto del Battifolle che fu tra le mie mani nel 1908 e poi emigrò anni fa in America?». E alla mia disorientata sorpresa una furia di foglietti colle indicazioni. Non sapevo chi fosse quell’azzimatissimo e vivacissimo anziano gentiluomo, ma lui sì sapeva chi era quello sbarbatello neoboccaccista. Mi rivolsi ingenuamente a Aldo Olschki per informazioni. «Ma come non conosce ancora il principe del libro, l’arbiter della bibliofilia internazionale, Tammaro De Marinis? Quarant’anni fa approdò da Napoli nella nostra libreria antiquaria, ragazzo povero, ma intelligentissimo e attivissimo. In pochi anni divenne espertissimo, si mise in proprio, fino a diventare uno dei dominatori della bibliofilia e dell’antiquaria europea».

Quella sua vitalità era animata da un entusiasmo e da un ottimismo a tutta prova. «La mia fortuna è stata addirittura incredibile» amava ripetere dalla sua reggia di Montalto, sovrano riconosciuto e venerato dall’impero del libro. E ripensava sorridendo alla sua difficile adolescenza a Napoli, con l’interruzione dei corsi scolastici, con le ore di studio disordinato in una casa amica di via dell’Anticaglia, ove Tasso aveva abitato fanciullo. Ripensava al tirocinio nelle modeste librerie partenopee del Pierro e del Marghieri e alla prima familiarità con Bartolomeo Capasso, il più napoletano degli storici napoletani. «Uocchie felice» lo battezzò proprio allora Capasso. Tammaro aveva ficcato un giorno, per caso, le mani nel carico di un cenciaiolo in via San Sebastiano e ne aveva tratto fuori una lettera di Pietro Giannone; Capasso, bloccato e poi setacciato quel mucchio di cartacce, non riuscì a trovare nient’altro di utile. «Uocchie felice» ribadiva Croce trent’anni dopo quando narrava – lo ricorda la figlia Elena – come andando a visitare insieme un fondo i libri, De Marinis fosse filato dritto dritto sugli unici tre libri che in tutta la stanza avevano un valore: e lui, bibliofilo di naso finissimo, si confessava con ammirazione battuto. L’ho visto, tanti anni dopo, io alla villa Emo di Pernumia puntare sicuro al secondo palchetto del terzo scaffale della seconda di tre stanze ricolme di libri: c’erano là le uniche sei cinquecentine degne del suo interesse.

Ma non era solo «fortuna» quella di De Marinis, come andavano ripetendo certi fiorentini che lo ricordavano, al principio del secolo, commesso («colle pezze sul fondo dei calzoni» dicevano) nella celebre libreria dell’Olschki al Lungarno Acciaioli. Era invece il premio che sempre tocca a chi ama appassionatamente e ricerca tenacemente: il dono che, insieme all’opulenza, il dio-libro non poteva negare al suo più devoto sacerdote, al suo più entusiasta e convincente panegirista. Non esisteva quasi in Italia, e neppure nei paesi anglosassoni (ma sì in Francia), la tradizione dei bibliofili-collezionisti: egli la creò e la alimentò infaticabilmente per settant’anni. L’arte e la storia della legatura erano illustri sconosciute: persino un raffinato bibliofilo come il Principe d’Essling sostituiva le antiche legature – preziosissime d’arte e di memorie – con le moderne, sia pure prestigiose del Lortic, del Cuzin e dello Chambolle. De Marinis inventò, impose al mondo il valore e il senso di quelle testimonianze, uniche, di cultura e di gusto.

Ma che strilli acuti, ma che diluvio di «Gesù, Gesù» lancerebbe Tammaro alle stelle se sentisse parlare di «testimonianze», invece che di «capolavori», per quelle adorate divinità che erano per lui i libri e le loro legature! Divinità che egli umilmente serviva con culto assiduo, con un atteggiamento ieratico da gran sacerdote. Un brivido arcano percorreva il profano che era ammesso nel tempio delle sue raccolte: le librerie convergevano solennemente nel grande mobile ad altare col misterioso tabernacolo. «Tammaro mi accolse vestito da mandarino, in una serica cappa lillà, babbucce, papalina, lunga catena d’oro. Mi introdusse nel sancta sanctorum. Si accostò alla grande scansia degli incunaboli; sostò, tolse di tasca un paio di guanti color limone, scamosciati; li infilò. Dopo qualche istante di raccoglimento, sfilò delicatamente un unicum. Con ambe le mani, come pargolo dormiente, lo depose su un prezioso frammento di dalmatica, che posava su un prezioso tavolo. Lo rimirò. Quindi, sospirando, tolse da un astuccio un singolare strumento… una forbice in argento, cardinalizia per venustà, dalle punte ottuse. Volse il piatto della legatura in marocchino, con unghiatura à dentelles. Quindi, quasi stringesse non carta, ma ali di farfalla, con la sua forbice cominciò a far scorrere le pagine.

Così un giorno Giorgio Zampa, in una lettera a un intenditore come Piero Nardi, fermò la leggenda preziosa di quel rito che affascinava ognuno di noi quando eravamo introdotti nel sacrario. Ogni religione ha bisogno di una sua liturgia. De Marinis per le sue divinità l’aveva creata raffinata e fastosa: e amava celebrarla nella sua villa fiorentina di Montalto, in particolari solennità (fino a quella del suo novantesimo) con gran pompa di iniziati, tra fulgori di porpore cardinalizie, di eterni femminini regali, di potentati finanziari, di celebrità artistiche e accademiche del mondo intero.

Ma la sua devozione non si esauriva in questi riti che, tra il sorriso e la commozione, ci prendevano tutti. Vigoreggiava instancabile nell’organizzazione di mostre memorabili (monumento trionfale quella del libro italiano a Parigi nel ’26), nelle indagini assidue per le biblioteche e per gli archivi più remoti e irraggiungibili della Europa intera, nella scoperta di tesori della antichità e del Medioevo e della Rinascenza (gloria nazionale si acquistò coll’opera svolta per il recupero della famosissima Bibbia di Borso d’Este). E in questo suo ricercare instancabile, col dono di una rabdomantica capacità di sentire il pezzo prezioso nel più obliato recesso, De Marinis perseguì per settant’anni il sogno della sua adolescenza: quello di ricostruire la Biblioteca degli Aragonesi di Napoli, uno dei fuochi più splendidi del nostro Rinascimento, avviata da Alfonso il Magnanimo subito dopo la sua scenografica entrata in Napoli (1443), da antico trionfatore romano. Sino alla fatale invasione di Carlo VIII (1494) quella raccolta regale si arricchì di migliaia di incunaboli e di manoscritti, spesso capolavori dei calligrafi e dei miniatori più illustri del tempo, che lavoravano espressamente per gli Aragonesi. Divenne presto un centro vivo e originale di cultura, cui facevano capo gli ingegni più eletti del tempo, dal Bracciolini, dal Biondo, dal Filelfo al Pontano, al Sannazzaro, al Barbaro, al Poliziano.

Smembrata e dispersa dopo lo sfacelo della monarchia aragonese, De Marinis – rintracciando per il mondo intero migliaia di documenti, quasi seicento codici, innumerevoli testimonianze letterarie e iconografiche – la ricompone idealmente nella monumentale opera in sei grandi volumi, La Biblioteca Napoletana dei Re d’Aragona, illustrata da un migliaio di magnifiche tavole e riproduzioni e fac-simili, stampata fra il 1947 e il 1970 da un altro principe rinascimentale della tipografia e del libro, Giovanni Mardersteig. La più regale biblioteca del nostro Rinascimento non poteva avere per illustratore che un vero re del libro, come De Marinis.

L’ultimo rito a Montalto fu celebrato proprio il 23 marzo del ’69. Nel suo novantunesimo genetliaco Tammaro si vide deposta sulla ginocchia una copia, stampata espressamente in anticipo, del quinto e sesto volume della sua Biblioteca: cioè dei supplementi cui aveva lavorato tenacemente negli ultimi dieci anni, anche dopo che un infarto doppio lo aveva tenuto nel ’66 per mesi e mesi tra la vita e la morte. Si commosse, non lanciò i consueti strilli di gioia acuti come alalà di vittoria, gli tremò un poco la voce. C’era l’atmosfera di un patetico «nunc dimittis». Tammaro allargò allora le mani verso gli amici illustri che lo circondavano: li invitava semplicemente a scendere alla raffinatissima cena che egli, da monarca qual era, avrebbe amabilmente presieduto nei saloni splendidi di capolavori e di memorie dei re d’Aragona.

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