Genesi dei «Canti di Prigionia» e del «Prigioniero» (1950-1953) – (frammento autobiografico)

di Luigi Dallapiccola – In “Appunti Incontri Meditazioni”, Suvini Zerboni, Milano 1970. Una prima versione di questo saggio comparve su «Paragone», Firenze, I, n. 6, giugno 1950 (“Qualche cenno sulla genesi de «Il Prigioniero»”); la stesura completa (“The Genesis of «The Canti di Prigionia» and «Il Prigioniero»: an autobiographical fragment”) nella trad. di J. Schiller in «The Musical Quarterly», New York, XXXIX, n. 3, luglio 1953. Poi in “Parole e musica”, a cura di F. Nicolodi, Il Saggiatore, Milano 1980, pp. 399-420.

A Massimo Mila

(per il 14 agosto 1970)[1]

Pochi giorni dopo la prima esecuzione del Prigioniero[2] mi avvenne di cenare in compagnia di Igor Markevitch[3].

Questi, cui già in precedenza avevo fatto sentire l’opera al pianoforte, ne aveva seguito la trasmissione e n’era rimasto, sembra, assai colpito.

A un certo momento, e senza che nulla me lo avesse fatto prevedere, mi rivolse una domanda così inaspettata e diretta da mettermi in imbarazzo; in quella tipica forma di imbarazzo che prende colui che, improvvisamente, si sente messo a nudo. Mi domandò, precisamente, quali fossero le ragioni segrete che, per un così lungo periodo della mia vita, mi avevano indotto a occuparmi di carceri e carcerati e se forse avessi imposto a mia figlia il nome di Anna Libera per contrapporre qualche cosa di bello e di dolce a un motivo che così stranamente dominava nella mia produzione artistica.

Mi resi conto, in un attimo, e soltanto allora, che i Canti di prigionia mi avevano impegnato dal 1938 al 1941 e che Il Prigioniero aveva richiesto quattro anni di lavoro, dal 1944 al 1948. Sebbene in quel decennio avessi scritto altre opere e di carattere del tutto diverso (basti pensare alle Liriche greche), ero vissuto in ispirito per dieci anni in mezzo a prigioni e prigionieri, se consideriamo il lungo periodo preparatorio per la stesura del libretto del Prigioniero. Mi accorsi di ciò soltanto grazie all’occasionale domanda di Markevitch.

Non tutti i momenti sono ugualmente adatti per abbracciare d’un colpo solo un’intera vita, né ogni momento sembra ugualmente opportuno per fare delle confessioni. Non ricordo che cosa risposi alla domanda che mi era stata rivolta; ma mi sembra di aver aggirato l’ostacolo con un tratto di spirito.

Non è facile, anzi talora è faticoso e doloroso riguardare al passato. Senza contare come, anche per un artista che sorveglia attentamente i moti del suo animo, sia spesso difficile individuare da che cosa la sua fantasia abbia avuto la prima spinta alla creazione.

La psicologia sostiene l’importanza preponderante, quasi unica, che le esperienze dell’infanzia e dell’adolescenza esercitano sulla formazione della personalità in genere e su quella dell’artista in particolare. Nei giorni che precedettero la prima rappresentazione teatrale del Prigioniero[4] un intervistatore americano mi domandò se, per caso, fossi mai stato in carcere. Risposi di no. Tuttavia, se oggi voglio intraprendere un viaggio nel mio temps perdu, vedo che nella mia vita c’è stato un avvenimento di importanza capitale: i venti mesi di confino passati a Graz fra il 1917 e il 1918. E l’avvenimento, per quanto importante in se stesso, lo diventa ancor di più, se si pensa che coincise proprio con l’inizio della mia adolescenza.

Ma, prima di addentrarmi nel vivo del soggetto, dovrò cercare di tratteggiare un periodo lontano e un ambiente ovviamente sconosciuti ai giovani d’oggi. Il periodo è quello che precedette la prima guerra mondiale, «col cui inizio cominciarono tante cose che non hanno quasi ancora finito di cominciare»[5]; l’ambiente è la famiglia di un professore di lingue classiche nell’unico ginnasio-liceo di lingua italiana ammesso dal governo austro-ungarico[6] nel centro di quella piccola penisola che è denominata Istria; a Pisino, cittadina di poco più di 3000 abitanti, situata sulla linea ferroviaria che unisce Trieste a Pola. È esatto parlare di un ambiente borghese in uno stato borghese – l’impero austro-ungarico – pur non prendendo in considerazione il significato dispregiativo che il vocabolo ha assunto più tardi? Sino a un certo punto, soltanto. Non va dimenticato che la piccola penisola denominata Istria, dove sono nato, si trova all’incrocio di tre frontiere. Quando il treno si fermava alla stazione della mia città natale, il capotreno annunziava ad alta voce: Mitterburg, Pisino, Pazin. È noto quanto contribuiscano i paesi di frontiera ai miscugli di stirpi e di culture; in più, la mentalità che si incontra nelle zone di frontiera è molto diversa da quella che s’incontra generalmente all’interno dei paesi. Come definire questa mentalità? Forse con l’attributo «inquieta».

Nell’epoca che precedette la prima guerra mondiale, in genere soltanto ladri e assassini venivano incarcerati. Il fatto che l’affaire Dreyfus abbia scosso la coscienza di tutti i cittadini europei alla fine del secolo scorso è prova dell’importanza che si attribuiva alla giustizia e alla libertà individuale. In quante famiglie borghesi fu conservata gelosamente per anni e anni, come una reliquia, la copia de «L’Aurore» in cui Emile Zola pubblicò il suo famoso J’accuse!

Avevo dieci anni quando, nel 1914, l’Europa fu scossa dalla prima fase della guerra mondiale. Stavo per cominciare i miei studi ginnasiali; da qualche anno dedicavo la mie opere libere allo studio del pianoforte, per ragioni di cultura; cosa questa che avveniva comunemente nelle famiglie borghesi dell’Europa Centrale, senza neppur lontanamente supporre che un giorno la musica sarebbe diventata il mio solo scopo. La nostra vita di famiglia procedeva calma e senza incidenti degni di nota particolare. Sentivo parlare talvolta dei movimenti irredentistici delle popolazioni di lingua italiana comprese nell’impero austro-ungarico; mi erano note le rivalità fra le popolazioni di lingua italiana e quella slava. Non consideravo tutto ciò eccezionale, in una regione come la mia, di popolazione mista.

Come ho detto, la mia infanzia trascorreva tranquilla. Un pomeriggio, dopo la lezione di pianoforte, il mio insegnante volle parlare con mia madre. Le disse che, a suo modo di vedere, avevo una speciale attitudine alla musica e che si sarebbe dovuto fare di me un musicista. Ebbi la netta impressione che mia madre non solo non ne fosse affatto rallegrata, ma che il giudizio dell’insegnante l’avesse profondamente turbata. Usa a pensare che la vita dell’artista è piena di delusioni e irta di difficoltà, come madre, considerava suo primo dovere allontanare, per quanto possibile, ogni motivo d’angoscia dalla sua creatura. Certo si è che, almeno in mia presenza, non si tornò più sul giudizio espresso dal mio primo insegnante.

Avevo sei anni, quando un delitto provocò molto chiasso nella regione: una donna aveva ucciso il marito. In famiglia non si parlava in presenza dei figli di cose che potessero turbarli; ma, in fondo, chi è in grado di stabilire che cosa possa agitare la mente di un bambino? E, ancora: non riesce forse la mente di un bambino a captare misteriosamente ogni cosa?

Una sera, mio padre rientrò in casa col giornale ripiegato sotto il braccio. Stavo alla finestra e guardavo la strada, piuttosto buia, i radi passanti, i lampioni a gas situati alquanto lontani gli uni dagli altri. Mio padre sussurrò all’orecchio di mia madre: «La signora Volpis è stata condannata a sei anni di carcere». Appoggiai la fronte al vetro, come volessi veder meglio la strada e i passanti e, per la prima volta, mi resi conto quanto possa esser freddo un vetro, d’inverno. Un momento dopo mi trovai raggomitolato nel vano della finestra, contando sulla punta delle dita fino a sei e mi sentii inorridire al pensiero che una creatura umana sarebbe stata chiusa in una cella per un periodo di tempo che mi sembrava senza fine. Sei anni: tutta la mia vita, sino a quel momento.

Mi sorpresi spesso a pensare alla prigioniera di cui ignorerò sempre l’aspetto, il viso, e anche il prenome.

Ogni anno il 29 giugno, giorno dei Santi Pietro e Paolo, sulla piazza principale della mia piccola città si svolgeva una festa popolare, con banda e gioco della tombola: una festa attesa con gioia da noi ragazzi, perché – fra il resto – sapevamo che, a una certa ora, seduti al tavolo di un caffè, avremmo avuto una buona porzione di gelato.

In quel lontano 1914, non esistendo la radio, anche le notizie dei più importanti avvenimenti arrivavano con ventiquattro ore di ritardo.

A un tratto si ebbe l’impressione che qualcuno parlasse col tono di chi confida un segreto; ma non sono i ragazzi di dieci anni che possano valutare il significato di voci ancora vaghe e frammentarie.

  • È arrivato un telegramma all’ufficio postale…
  • La festa dev’essere interrotta immediatamente…
  • A Sarajevo sembra sia avvenuto qualche cosa…
  • Si chiama Gavrilo Princip…
  • Ma sì, un ventenne, uno studente serbo…

E, infine, la notizia ufficiale: «L’arciduca Francesco Ferdinando, successore designato al Trono austro-ungarico e la di lui moglie, contessa Sofia Chotek sono stati assassinati a Sarajevo.»

Un mese dopo, la guerra.

Sarebbe superfluo ripetere che, nei territori di confine, le ripercussioni di avvenimenti così gravi assumono un tono particolare.

Ma, con l’intervento dell’Italia in guerra, le ripercussioni si fecero sentire in modo ben più clamoroso: per la prima volta si parlò di campi di concentramento anche nella mia piccola città.

L’imperatore Francesco Giuseppe era fermamente deciso a «disciplinare» gli italiani del Trentino, di Trieste e dell’Istria; era deciso a mettere un freno a quei ribelli amanti della libertà, che avevano così spesso arrecato disturbo a una vita già abbastanza segnata dal destino avverso; bisognava dare la lezione definitiva agli irredentisti, a quegli ultimi eredi dei moti risorgimentali. Cittadini integerrimi vengono arrestati e deportati; spie si introducono per ogni dove; nomi di città assumono un significato sinistro: Leibnitz, Mittergraben, Oberhollabrun…: è compiuto il primo passo. Un quarto di secolo più tardi i nomi di altre città assumeranno un significato ancora assai più funesto: Auschwitz, Dachau, Buchenwald.

Qualche cosa stava cambiando rapidamente, senza che noi, attori, ce ne accorgessimo. Sulla rapidità con cui qualche cosa cambiava posso esprimermi oggi a distanza di tanti anni, se penso che nel 1916 un mio coetaneo, incontrandomi la mattina in cui i giornali annunciavano che il conte Karl von Stürgkh, presidente del consiglio, era stato assassinato da Friedrich Adler, esponente del partito socialdemocratico, ammiccando mi sussurrò: «E uno!».

Anche i dodicenni erano entrati, dunque, nella nuova mentalità: la vita umana aveva perduto molto del suo peso.

Il 21 novembre 1916 morì Francesco Giuseppe. Carlo d’Asburgo, suo successore, uomo che si era reso conto senza dubbio dei molti problemi che urgevano – e fra questi anche della necessità di un’unione europea – era salito al trono troppo tardi per tentare almeno di risolverli. Uno dei suoi primi provvedimenti fu quello di abolire quei campi di concentramento, che avevano suscitato così profondo sdegno nell’Europa civile di allora. Gli irredentisti, i sospetti politici, anzi i P. U. – politisch unverlässlich – sarebbero stati espulsi dalle zone di confine e inviati nell’interno dell’Austria. La scuola che mio padre aveva diretto con tanto amore e in cui aveva insegnato per tanti anni, era stata chiusa dall’oggi al domani, con la motivazione che si trattava di una «scuola-protesta» (ein Trotz-Gymnasium): questa la formula adottata dalle superiori autorità. E fu così che la mia famiglia, scortata da un poliziotto, il 27 marzo 1917, dovette raggiungere Graz.

Nella capitale della Stiria bisognava ricominciare la nostra vita.

Ma come? Con la minuscola pensione che era stata assegnata a mio padre dopo la soppressione della scuola?

Non si ebbe a soffrire di alcuna brutalità: nessun obbligo particolare fu imposto a mio padre, se non quello di presentarsi periodicamente alla polizia. Pure, il cambiamento fra il ritmo tranquillo dei miei primi dieci anni di vita e quanto era avvenuto dopo, in così breve volger di tempo, era stato un po’ troppo brusco. Avevo l’impressione che fosse stata compiuta un’ingiustizia e sentivo in me un profondo senso di umiliazione.

La situazione alimentare, già molto grave al momento del nostro arrivo a Graz, peggiorava di giorno in giorno. Si sente dire che, andando in treno a Feldbach o a Fehring, percorrendo poi qualche chilometro a piedi, avvicinando i contadini che cominciano a dubitare del valore del denaro e che preferiscono esser pagati con lenzuola o coperte, si possono trovare dei viveri. Si farà anche questo nei giorni in cui la scuola non ci tiene occupati.

125 grammi di pane al giorno non sono sufficienti per un adolescente. Ma, per fortuna, a Graz c’è un teatro d’opera che, nonostante la guerra e le privazioni cui tutti sono sottoposti, riesce a dare delle rappresentazioni di livello considerevoli.

Si possono ascoltare senza sforzo, all’età di tredici anni, in loggione, in piedi, opere come I Maestri Cantori[7] o la Tetralogia. E, cosa davvero sorprendente, durante la rappresentazione non si avvertono le strette della fame.

Ricordava ancora mia madre quanto il mio maestro di pianoforte le aveva detto qualche anno prima, in un certo pomeriggio? Ricordava il turbamento che l’aveva presa allora? Era preoccupata vedendo che il mio amore per la musica aumentava costantemente? Comprendeva che, mandandomi alle serate d’opera, mi spingeva verso ciò che avrebbe voluto evitare? Non lo so. È certo, tuttavia, che si trovò in una situazione in cui non aveva possibilità di scelta. Ottanta centesimi non bastano per comperare del pane al mercato nero, ma sono sufficienti per acquistare un biglietto di loggione all’Opera. Non potendomi dare del pane, mi mandava a teatro.

Certo, può avvenire di dover attendere molto a lungo il sonno, dopo aver assistito con terrore all’ultima scena del Don Giovanni[8]. Può avvenire di pensare all’inferno o al «piano e stridori di denti». Ma l’insonnia è fatto del tutto privato, di cui non si fa parola con alcuno. A quattordici anni, in ogni modo, mi trovai a conoscere Wagner abbastanza profondamente.

Nel mio intimo avevo deciso di dedicarmi alla musica già la sera in cui per la prima volta avevo assistito alla rappresentazione del Vascello Fantasma; ma, parlandone, temevo d’incontrare opposizione da parte della mia famiglia. Finalmente, qualche anno più tardi, dopo qualche accenno indiretto e alquanto vago circa le mie intenzioni per il futuro, mi resi conto che mio padre non vi si sarebbe opposto, a condizione però che prima completassi gli studi liceali. «Non è più l’epoca dei musicisti ignoranti» badava a ripetermi, quando gli dicevo che lo studiare a memoria la derivazione delle formule molecolari e gli elementi di cristallografia mi sembrava un’inutile perdita di tempo.[9]

La guerra era finita; ero rientrato al paese natale, in festa.

Da ogni parte ci si assicurava che non si sarebbe più sentito parlare di guerre (con ciò si può almeno parzialmente spiegare la psicosi di carattere edonistico che seguì la guerra del 1914-18).

Woodrow Wilson aveva visitato i più importanti centri europei ed era stato accolto dappertutto come un trionfatore. In un tale clima psicologico, nella nuova aria di libertà, faceva quasi piacere pensare ai «tiranni» della Casa d’Asburgo e soprattutto al minuscolo erede di Carlo Magno, di Carlo V e di Maria Teresa, il cui regno era durato 68 anni.

Ma è ora di far entrare in scena un altro personaggio; un amico d’infanzia, anzi il solo amico che dall’infanzia abbia conservato fino ad oggi.[10] Molto sensibile, molto «artista», intelligentissimo e curioso di tutto ciò che riguarda la cultura; di un anno soltanto più anziano di me.

Avvenne un giorno che, passeggiando insieme nel giardino pubblico della nostra piccola città, l’amico mi raccontasse con profonda emozione come il suo professore di francese avesse letto e commentato in classe La rose de l’Infante, da Le légende des siècle di Victor Hugo:

Elle est toute petite: une duègne la garde.

Elle tient à la main une rose et regarde[11]

Quanto sia rimasto di storico o di reale nel poema di Victor Hugo non ha importanza per noi: di fronte a versi come

Quel doux regard, l’azur! et quel doux nom, Marie!

Tout est rayon; son oeil éclaire et son nom prie[12],

che c’interessa che il primo nome dell’Infanta non fosse proprio quello di Maria?

L’Infanta, guardata a vista dalla governante, tiene in mano una rosa e contempla il bacino d’acqua nel giardino. Dietro una finestra del palazzo retrostante

Dans le vaste palais catholique romain,

Dont chaque ogive semble au soleil une mitre,

Quelqu’un de formidable est derrière le vitre[13];

non, evidentemente, l’Escorial, per quanto al poeta poco potesse interessare la realtà «architettonica» di fronte alla bellezza dell’immagine, ma probabilmente Aranjuez appare Filippo II. Ora, chi avesse potuto scrutare nel più profondo delle sue pupille, non vi avrebbe trovato riflesso né il cielo, né il giardino, né sua figlia; ma vi avrebbe visto una sfilata di vascelli naviganti verso il Nord: l’Invincibile Armata.

Il sole è tramontato: un soffio di vento improvviso scuote l’acqua, gli alberi, persino la rosa che l’Infanta tiene in mano e sgarbatamente la sfoglia: i petali cadono nel bacino che sembra ribollire e si disperdono.

La distruzione della rosa è forse la prima contrarietà sofferta dalla piccola creatura: non rendendosi conto del perché ciò le sia avvenuto, guarda verso il cielo, quasi cercandovi il vento. Alla silenziosa interrogazione dell’Infanta, la governante risponde con le parole che si vuole Filippo II abbia pronunciato nell’apprendere che l’Invincibile Armata era colata a picco, investita dalla tempesta:

Tout sur terre appartient aux princes, hors le vent[14]

Credo che, da quel giorno, l’idea di un Filippo II, incombente minaccia sugli uomini («Sa rêverie était un poids sur l’univers»), non sia più uscita dal mio spirito. Ma, se allora mi sembrò possibile stabilire un parallelismo tra il figlio di Carlo V e i tiranni della Casa d’Asburgo, non molti anni più tardi mi parve che Filippo II potesse venir identificato con altre e ben più terribili apparizioni.

Stavo lavorando a Volo di notte, quando strane voci cominciarono a circolare: in un primo momento a bassa voce e discretamente; più tardi in modo del tutto chiaro. Avrebbero iniziato i fascisti un movimento antisemita, accodandosi servilmente all’ignobile esempio di Hitler?

A metà febbraio del 1938 la Corrispondenza politico-diplomatica si affrettava a smentire le voci che si erano diffuse. Tuttavia, conoscendo per esperienza il significato delle smentite ufficiali, si ebbe l’impressione che Mussolini avrebbe ceduto una volta di più.

Cinque mesi più tardi, il 15 luglio 1938, apparve sui giornali il manifesto razziale, redatto da un gruppo di «studiosi-fascisti» (!), il cui lerciume risultava anche più ributtante perché venato di concetti pseudo-scientifici. Il 1° settembre la campagna razziale diventava una realtà.

Per quanto la verità mi sia cara, avrei omesso ben volentieri questi ultimi capoversi. Dopo averli scritti, sono felice di poter affermare che il popolo italiano non soltanto non appoggiò la campagna razziale, ma che vi fu decisamente contrario[15].

Se, adolescente, avevo tanto sofferto per il confino a Graz, perché mi sembrava ingiusto, come potrei descrivere il mio stato d’animo in quel fatale 1° settembre 1938, ore 17, nell’udire, proclamate dalla voce del Mussolini, le decisioni del governo fascista? Avrei voluto protestare, ma non ero ingenuo al punto di non sapere che, in un regime totalitario, il singolo è impotente.

Soltanto con la musica avrei potuto esprimere la mia indignazione: ben lontano dall’immaginare che, pochi anni dopo, opere come quella che sentivo nascere in me (come La mort d’un tyran di Darius Milhaud (1936), Thyl Claes di Wladimir Vogel (1937-38), Ode to Napoleon Buonaparte (1942) o  A Survivor from Warsaw (1947) di Schoenberg, per limitare al minimo le citazioni) avrebbero avuto una precisa definizione: protest-music.

Avevo letto da poco la biografia di Maria Stuarda di Stefan Zweig. Debbo a questo libro la conoscenza di una breve preghiera scritta dalla regina di Scozia in uno degli ultimi anni della sua prigionia:

O Domine Deus! speravi in Te.

O care mi Jesu! nunc libera me.

In dura catena, in misera poena, desidero Te.

Languendo, gemendo et genu flectendo,

Adoro, imploro, ut liberes me.

Mi sembrò che questi versi, vecchi di secoli, rispecchiassero una condizione umana di ogni tempo e quindi anche di quello in cui si viveva (non avendo mai creduto che attuale fosse soltanto quanto si legge sulle pagine dei quotidiani ed essendo, inoltre, convinto che tra storia e cronaca il passo sia lungo). Era, perciò, mia intenzione trasformare la preghiera individuale della regina in un canto collettivo; volevo che la divina parola libera venisse gridata da tutti. Chi può affermare o escludere che nella mia coscienza – molto in fondo e senza che me ne rendessi conto – vivesse ancora il ricordo di quella prigioniera, la cui condanna aveva così profondamente scosso la mia infanzia?

A un tratto la musica cominciò a urgere in me: con tanta violenza che mi vidi costretto a interrompere per quattro giorni la partitura di Volo di notte. Segnai sui pentagrammi un primo abbozzo della Preghiera di Maria Stuarda, in attesa di darle forme definitiva quando avessi terminato la partitura che mi occupava e che desideravo portare a compimento.

Nei quattro giorni di lavoro dedicati alla Preghiera non mi fu possibile pensare ad altro: voglio dire con ciò che non sapevo ancora se questo fosse destinato a rimanere un brano isolato o se dovesse costituire una parte d’un lavoro di maggiori proporzioni. Soltanto qualche mese più tardi mi apparve chiara la necessità di un maggiore sviluppo. Dovevo, quindi, mettermi alla ricerca di altri testi; bisognava intraprendere un’indagine negli scritti di altri illustri prigionieri, di uomini che avevano lottato e creduto.

Il sistema dodecafonico mi affascinava, ma ne sapevo così poco!

Stabilii, comunque, una serie di dodici suoni alla base dell’opera complessiva e vi contrappuntai, a mo’ di simbolo, un frammento dell’antico canto della Chiesa, Dies irae, dies illa. Considerando la situazione politica generale, a poche settimane dal Convegno di Monaco, non mi sembrava fuori luogo pensare al Giudizio finale. Ero convinto, inoltre, che l’impiego del Dies irae a guisa di cantus firmus, avrebbe facilitato la comprensione di quanto volevo dire. La comprensione, ho detto, non il successo né la possibilità di frequenti esecuzioni. Considerazioni come queste, in nessun momento della mia vita, nemmeno per un istante, hanno influito sul mio modo d’essere o di pensare. Nei Canti di Prigionia ho prescritto il vibrafono, perché mi era necessario; pur sapendo che, nel 1938, in tutta Italia non se ne trovava nemmeno uno. (Chi avrebbe immaginato che, a distanza di pochi anni, si sarebbe ritenuto tale strumento idoneo a risolvere ogni problema, non escluso quello del Bene e del Male?)

In due frasi del De consolatione philosophiae di Severino Boezio trovai il testo necessario per il secondo pezzo, al quale lavorai tra la primavera e l’estate del 1940: una sorta di scherzo, il cui carattere «apocalittico», nell’introduzione strumentale, è basato sul pp. Per il brano conclusivo lavorai a lungo attorno a un madrigale di Tommaso Campanella. Senonché un giorno mi apparve chiara l’incongruenza che sarebbe derivata da un testo italiano che tien dietro a due testi latini. Aggiungerò che due versi del madrigale, quelli che seguono lo stupendo

Se nulla in nulla si disfà giammai[16],

essendo puro pensiero, non sembravano consentire, almeno a me, una interpretazione musicale.

Le ricerche furono riprese. Senza dubbio, le ultime parole di Socrate mi attraevano straordinariamente; ma le due dottissime traduzioni latine che mi fu possibile consultare mi sembrarono fredde, inavvicinabili. Credetti di aver trovato quanto cercavo in una lettera di Sebastiano Castellio; ma mi accorsi in pochi giorni di essermi ingannato una volta di più.

Il 19 agosto mi trovavo con mia moglie al Covigliaio, piccola località dell’Appennino. Quella sera, al Reichstag, Hitler pronunciò il violentissimo discorso nel quale dava per imminenti i bombardamenti sul territorio della Gran Bretagna. Mi ritornarono alla memoria gli orrori che Girolamo Savonarola aveva profetizzato e che si avverarono. Samuel Hoare, allora ministro dell’aereonautica, rispondendo a Hitler, invitò il popolo alla preghiera.

Avevo trovato finalmente! O non aveva scritto qualche cosa di analogo il tragico frate del convento di San Marco in quella Meditatio sul salmo In te Domine speravi, che la morte gli impedì di completare?

Premat mundus, insurgant hostes, nihil timeo.

Quoniam in Te Domine speravi,

Quoniam Tu es spes mea,

Quoniam Tu altissimum posuisti refugium Tuum.

Debbo la prima esecuzione della Preghiera di Maria Stuarda alla Radio Fiamminga di Bruxelles e all’allora suo direttore Paul Collaer, cui la Preghiera è dedicata. Fu il 10 aprile 1940 e fu l’ultima volta che ebbi modo di seguire una trasmissione da quella coraggiosa stazione radio, prima del suo quinquennale silenzio. Perché nel maggio di quell’anno le truppe naziste occuparono il Belgio.

La prima esecuzione dell’opera complessiva ebbe luogo nell’atmosfera sinistra di una Roma eccezionalmente fredda, nelle cui strade non si vedevano se non poliziotti e militi fascisti: parlo dell’11 dicembre 1941, del giorno in cui Mussolini ebbe la pensata di dichiarare guerra agli Stati Uniti.

Dopo questa esecuzione non fu difficile a uomini e circostanze far cadere nel dimenticatoio i Canti di prigionia. A parte qualche riga pettegola apparsa in alcuni quotidiani, nessuno se ne occupò sino a guerra finita.

Sono grato a Fedele D’Amico per un importante articolo scritto sui Canti nel 1945 – il primo, in ordine di tempo[17] – e alla Società Internazionale per la Musica Contemporanea che, nel primo Festival del dopoguerra (luglio  1946), a Londra, «riscoperse» la mia opera.

Nel giugno del 1939 si volle andare, mia moglie ed io, a Parigi, per vedere ancora una volta, in un momento così grave di incognite, una città a noi particolarmente cara. Gli avvenimenti precipitavano. Ognuno ormai sapeva che un’ulteriore provocazione di Hitler avrebbe significato la guerra. Tutti lo sapevano, ho detto, a eccezione di colui che più di ogni altro avrebbe avuto l’obbligo di saperlo: Joachim von Ribbentrop.

Pure, la vita continuava col suo ritmo normale: né prima né dopo il 1939 ho veduto Parigi più gaia e più accogliente. E sui Lungo-Senna, come sempre, si vendevano libri usati.

Fu così che acquistammo le opere del Conte Villiers de l’Isle-Adam e mia moglie, nel viaggio di ritorno, mi segnalava il racconto La torture par l’espérance come possibile trama per un’azione scenica; forse, diceva, per una pantomima.

Per un caso, dunque, subito dopo la lettura del crudelissimo racconto, si ristabiliva in me il contatto con la visione di un tiranno incombente. Filippo II, l’Official di Saragozza, il sanguigno colore di certa fanatica coralità spagnola del secolo XVI incominciarono a vivere nel mio spirito.

Passare dalla lettura di un racconto alla stesura di un libretto d’opera non è semplice. Ricordo, tuttavia, che la sera del 18 maggio 1940, la sera in cui fu rappresentato per la prima volta Volo di notte, avevo già deciso che, o prima o poi, qualora la guerra mi avesse concesso di sopravvivere, avrei scritto un’azione scenica basata su La torture par l’espérance.

Intanto sentivo il dovere d’informarmi a fondo sulla figura di Filippo II, alla luce della storia e della poesia.

Caso singolare quello del grande Re (grande certamente, se lo afferma con tanto calorosa convinzione Miguel de Unamuno!), assolto dagli storici e condannato dai poeti. Da tutti i poeti che ebbi modo di consultare, se facciamo una mezza eccezione per Verlaine. (Non più che una mezza eccezione, intendiamoci: essendo fin troppo chiaro come il poeta francese abbia trovato all’inizio del suo lavoro il verso conclusivo del poema, un verso stupendo nella sua solenne immobilità

Philippe II était à la droite du Père[18]

e che su questo verso è stata poi costruita la poesia, non certo tipica della personalità verlainiana e piena di visibilissime suture).

Presa nota del parere degli storici, rimasi fedele all’opinione dei poeti.

In quel tempo rilessi anche La légende d’Ulenspiegel et de Lamme Goedzak, l’epopea fiamminga di Charles de Coster; libro che, pochi anni prima, aveva riempito del suo spirito di libertà Wladimir Vogel, e in de Coster trovai alcuni elementi che mi apparvero subito sfruttabili per l’opera che meditavo e desideravo.

Andavo annotando centinaia di dati, di aneddoti, di curiosità, fra il 1942 e il 1943: ero diventato, in quel tempo, quasi un competente nella storia di quel fosco periodo che si suol definire delle guerre di religione.

Passavano i mesi e gli eventi maturavano. Mi appariva sempre più chiara la necessità di scrivere un’opera che, nonostante la sua ambientazione storica, potesse essere di toccante attualità; un’opera che trattasse la tragedia del nostro tempo, la tragedia della persecuzione, sentita e sofferta da milioni e decine di milioni di uomini.

L’opera sarebbe stata intitolata Il prigioniero, semplicemente. Mi sarebbe sembrato di limitare il problema, ormai comune a tutti gli uomini, accettando che il protagonista fosse il rabbino Asher Abarbanel che incontriamo nel racconto di Villiers de l’Isle-Adam.

Maturavano gli eventi e, in me, maturavano certi particolari che, un giorno, nel libretto, avrebbero trovato la loro collocazione. Durante gli anni di guerra ci si coricava molto tardi: la sera, fra le undici e la mezzanotte c’era la possibilità di captare i bollettini di Radio-Londra in lingua tedesca. Questi, essendo il tedesco ben poco conosciuto in Italia, venivano disturbati dalla Prefettura assai meno che non quelli in francese o in inglese. Dopo aver ascoltato le «ultime notizie», era mia abitudine fare una passeggiata lungo il Viale Margherita[19], dove allora abitavo.

Fra le tante solitarie passeggiate di quegli anni, una mi è rimasta particolarmente impressa: sopra lo scenario immobile di una città buia, un cielo limpido, come può esserlo talora d’inverno, e la luna piena. Una di quelle notti che si definivano nel nostro linguaggio familiare – non senza una punta di cinismo – «notti da RAF», del tutto incuranti che noi pure si sarebbe potuti essere vittime di una eventuale incursione della Royal Air Force. Camminando lentamente lungo gli alberi spogli e stecchiti, mi trovai per un attimo in una posizione che non saprei definire, ma tale da aver l’impressione che due rami illuminati dalla luna, proiettando su di me la loro ombra, mi avvinghiassero il collo. Un attimo solo, ma sufficiente perché vedessi e sentissi l’abbraccio del Grande Inquisitore che, celato dal tronco di un albero, attende la sua amata vittima.

Le truppe naziste occupavano Firenze l’11 settembre 1943. Come se ciò non bastasse, ecco che la notte seguente Radio-Londra comunicò che Mussolini era stato «liberato».

Per quanto di Mussolini si parlasse dovunque con tutta libertà e senza sottintesi[20], era chiaro che, col ritorno di fiamma dei fascisti, con l’avvento dei «repubblichini», accompagnati dalle S.S., era poco prudente continuar ad abitare in città e nella nostra casa. Un amico ci offre, generosamente, di andare a stabilirci nella sua villa a Borgunto, a nord di Fiesole.[21].

Terminata qui la partitura dei Sex Carmina Alcaei, in me si fa silenzio.

Troppe erano le preoccupazioni che mi affliggevano in quel periodo per consentirmi di trovare sia pure quel minimo di calma necessario al mio lavoro. Ma la forzata inattività mi affliggeva anche di più. Come far passare le ore? Non certo leggendo i giornali, che toccavano il vertice di quanto può essere disgustoso. Se un amico, senza essersi annunciato al telefono, appariva alla nostra porta, la domanda che gli rivolgevo era sempre la stessa: «Quali cattive notizie mi porti?» A questa domanda, Igor Markevitch, apparso alla nostra porta in bicicletta il 6 novembre, rispose: «Sono cominciate le razzie degli ebrei». Qualche giorno dopo si partì per Como, onde esaminare l’eventualità di riparare in Svizzera. Ma troppi ostacoli d’ogni genere si frapponevano alla realizzazione di questo progetto. Non c’era scelta: bisognava rientrare a Borgunto, animati soltanto dalla speranza di sopravvivere.

Nel 1942, su invito dell’indimenticabile Paolo Giordani[22] avevo scritto uno «Studio» sul XIV Capriccio di Paganini per un’antologia pianistica che egli aveva in animo di pubblicare. Un anno dopo, nella solitudine di Borgunto, per ammazzare il tempo (Galgenhumor!), mi venne l’idea di riprendere altro materiale dalle opere del sommo violinista e, in una settimana, abbozzati tre pezzi che, più tardi, insieme a quello compiuto un anno prima, avrebbero costituito la Sonatina canonica[23].

Nella villa di Vittorio Gui, a Regresso di Maiano, consultavo l’Enciclopedia Britannica; a San Domenico, da Giacomo Devoto, l’Enciclopedia Italiana, onde informarmi sulla voce tortura.

Il 9 dicembre, in seguito a un avvertimento, mi appare chiaro quanto sia opportuno per mia moglie riparare per un certo tempo a Firenze, nell’appartamento disabitato che una fedele amica le avrebbe messo a disposizione. All’imbrunire scendevo a trovarla, badando a percorrere ogni sera una strada diversa. Alessandro Bonsanti mi dice: «Dopo tutto sono le nostre mogli e sono costrette e fuggire. Ho voglia di torcere il collo a qualcuno.»

A Borgunto si accedeva alla mia stanza percorrendo un corridoio relativamente lungo. Una sera, rientrando nella mia stanza, vidi in esso, chiaramente, il corridoio dell’Official di Saragozza. Un altro elemento, dunque, che mi sarebbe stato prezioso per la sceneggiatura del crudele racconto di Villiers de l’Isle-Adam, si aggiungeva a quelli che avevo a disposizione.

Chiarita la posizione di mia moglie, avuta assicurazione da un funzionario della Questura che, in caso di rinnovato pericolo, sarei stato avvertito, mia moglie ritornava a Borgunto.

Tra la vigilia di Natale e il giorno di San Silvestro del 1943 preparavo una prima stesura del libretto del Prigioniero che, il  4 gennaio seguente, a San Domenico, in casa Bonsanti, leggevo ad alcuni amici. Dopo l’ultima battuta del protagonista, che mormora quasi in stato di incoscienza, ma con tono nettamente interrogativo «La libertà?», ci fu un breve silenzio. Lo interruppe Bonsanti: «Per parte mia oso sperare che al rogo andranno questi altri».

Il 10 gennaio 1944, finalmente, mi apparve con sufficiente chiarezza la prima idea musicale, quella che dà vita all’«aria in tre strofe»

Sull’Oceano, sulla Schelda,

che costituisce il centro dell’opera e nella quale intravidi subito molte possibilità di trasformazione. Quella stessa sera da Radio-Londra si apprende la conclusione del processo di Verona.

In un paio di settimane l’abbozzo dell’aria centrale de Il Prigioniero è compiuto. Ma l’opera non progredirà per molti mesi.

Il febbraio è appena cominciato che la villa di Borgunto viene requisita da un comando tedesco. Non c’è altra soluzione che rientrare nel nostro appartamento, al viale Margherita, sino al giorno in cui, ricevuto l’avvertimento del rinnovato pericolo, degli amici fraterni non ci ospiteranno, con tanto cuore, per attender insieme, in lunghe giornate e in serate interminabili, il momento della liberazione. Le sirene danno l’allarme sette, otto volte al giorno.

Nessuna preoccupazione, per quanto riguarda la mia persona, circa le incursioni aeree. Sentivo che non sarei perito per una bomba anglo-americana. Ma la persecuzione subdola, la denuncia anonima sempre incombente (che non mancò, infatti), la sconcia prosa giornalistica, il piccolo gerarca, con tanto d’aquila romana sul berretto (tutto sembrava finto, ma le mascherate continuavano) che, incontrandoti per via, si volta a guardarti: ecco ciò che mi toglieva la calma nel modo più assoluto. Scontavo amaramente, con tanti altri, l’immenso scoppio di gioia del 25 luglio; il giorno più felice della mia vita.

Lunghe le giornate estive del 1944: non c’era acqua né luce nelle case. Tagliati fuori da ogni contatto, aspettavamo notizie da coloro che, con qualche sistema ingegnoso, riuscivano ad azionare i loro apparecchi radio. Di musica, ormai, non si parlava più: quando si trovava qualche amico si tentava di fare «il punto della situazione», sbagliando sempre, si capisce.

La sera del 20 luglio, Pietro Scarpini[24] bussa i quattro colpi d’uso alla nostra porta. Mesi prima si sarebbe parlato di Liszt o di Busoni o di Schoenberg: quella sera entrò in casa nostra e, alla domanda se ci fossero novità, rispose soltanto: «Sì, Hitler non è morto.» Allora anche in Germania qualcuno cominciava a muoversi? Ci sentimmo consolati. Ma si sarebbe dovuto attendere ancora poco meno di dieci mesi di orrori prima che avvenisse qualche cosa di conclusivo.

La città di Firenze subiva il penultimo vilipendio. I nazisti avevano dei camion muniti di grossi ganci: con questi strappavano i fili di rame delle linee tranviarie, scrostando l’intonaco delle case. Queste squadre specializzate erano denominate squadre di recupero. E infine l’ultimo oltraggio. I ponti di Firenze erano stati minati. All’alba del 4 agosto alcuni lampi, seguiti da scoppi spaventosi sembrarono annunciare che la fine del nostro aspettare era imminente. L’11 agosto le truppe alleate passarono l’Arno e all’indomani, sotto un sole rovente, Sandro Materassi[25] ed io si andò, camminando, malsicuri su vetri e calcinacci, scansando per quanto possibile i mucchi dei rifiuti accumulatisi, a rivedere il centro di una città pressoché irriconoscibile. Non si tentò nemmeno di farci coraggio a vicenda: avevamo gli occhi pieni di lacrime.

Il rientrare a casa dopo una guerra non garantisce affatto una immediata ripresa del lavoro. E ciò senza contare che, nel caso nostro, si poté rientrare in casa appena ventotto giorni dopo la liberazione e che troppe cose richiedevano di essere messe a posto, a cominciare dagli embrici, perché nelle nostre stanze pioveva allegramente. E io che mi ero illuso di poter riprendere il discorso interrotto, esattamente all’indomani della liberazione, e di buon’ora, per non perdere dell’altro tempo!

Dal fondo della coscienza emerse improvvisamente un ricordo: il viaggio che mi aveva portato a Graz, con la mia famiglia, ventisette anni prima. E il ricordo riaffiorò con i suoi mille particolari, che credevo dimenticati, sepolti per sempre nella profondità dell’essere.

Un amico mi aveva regalato, al momento della partenza, una medaglia di ottone, rappresentante San Giorgio che ammazza il drago. Intorno, la leggenda: In tempestate securitas. «È un buon augurio», aveva commentato mio padre, dopo aver esaminato la medaglia.

Al confine della Stiria salì nel nostro scompartimento un signore che subito si immerse nella lettura della «Tagespost», il giornale di Graz.

Seduto di fronte a me, leggeva la parte politica, in prima pagina: così io potevo vedere e leggere l’ultima in cui spiccava l’annuncio dello spettacolo che quella sera si sarebbe dato all’Opera: Otello (come dimenticare la bellezza di quei caratteri gotici, in grassetto?) opera in quattro atti d Giuseppe Verdi. Leo Slezak sosteneva la parte del protagonista. Inizio dello spettacolo: ore 19,30.

Quante volte interrogai mio padre per sapere se il treno avesse molto ritardo!

Perché, nell’egoismo sfrenato della mia adolescenza, osavo ritenere niente affatto anormale che una famiglia, sbattuta fuori dal suo nido, pur di fronte a una prospettiva molto oscura, pur di fronte a infiniti punti interrogativi, anche dopo una faticosa e preoccupante giornata di viaggio, avrebbe potuto pensare ad accompagnarmi a teatro! Fortuna volle che il treno arrivasse alle 23. Così il problema che mi aveva angosciato durante varie ore di viaggio, si risolse per merito delle circostanze.

Ventisette anni più tardi, immaginando di potermi rimettere al lavoro all’indomani della cessazione dei combattimenti, vivevano in me, evidentemente, ancora molte illusioni. Così poco avevo appreso dunque dalla vita? E l’adolescenza era pur finita da un pezzo! Ma forse ancora una volta si trattava soltanto dell’amore per la musica e della netta percezione che, all’infuori di questa, la vita poco avrebbe potuto darmi.

È certo che Il Prigioniero non poté progredire in forma visibile se non a partire dal gennaio del 1945.

Due scene furono abbozzate; nel frattempo composi due lavori di musica da camera.

Nel 1946 mi trovai improvvisamente fermo.

Stanchezza, esaurimento. Mi rendevo conto soltanto allora che le fatiche e le ansie degli anni di guerra, che le preoccupazioni dell’immediato anteguerra, l’annessione dell’Austria da parte di Hitler, la questione dei Sudeti e la turlupinatura di Monaco, il fatale 14 marzo 1939 in cui Hitler entrò a Praga (dovetti appoggiarmi al muro sentendomi mancare, quel giorno, leggendone l’annuncio sulla «civetta» del giornale del pomeriggio e ricordo di aver guardato in alto, molto in alto, verso il cielo, quel giorno azzurrissimo e di aver mormorato: Sed libera nos a malo), e le privazioni e il febbrile lavoro del dopoguerra avevano chiesto a tutti uno sforzo di troppo superiore alle normali capacità di sopportazione.

Fortunatamente, nel mese di luglio, potei rimettermi in viaggio. Difficile dimenticare quel primo contatto con uomini di tante nazioni, dopo anni di isolamento.

Dopo Londra e Parigi mi recai a Bruxelles. Ma una mattina, senza prendere congedo dagli amici, mi rimisi in treno e volli visitare Anversa, non soltanto per ammirarvi i tanti tesori d’arte, ma anche e più per contemplare quel vasto braccio di mare che è la Schelda, non più fiume e non ancora mare, quello specchio d’acqua su cui erano arrivati a frotte i Pezzenti in lotta contro Filippo II. Si contempla un orizzonte senza fine dalla Schelda. «Cigni della libertà», cantavo nel cuore. E volli vedere Gand, che è quasi una fortezza e volli salire su quel campanile dove aveva risonato Roelandt, la fiera campana, che tanta parte ha nel mio Prigioniero.

E così ritrovai la forza di riprendere il lavoro, che fu concluso, in una prima stesura il 25 aprile 1947.

La partitura d’orchestra fu ultimata il 3 maggio 1948.


[1] L’occasione per questa dedica fu offerta dal 60° compleanno del critico torinese [N.d.C.].

[2] Questa ebbe luogo il 1° dicembre 1949 alla Radio Italiana, Torino, sotto la direzione di Hermann Scherchen.

[3] Come si ricorderà, negli anni del dopoguerra il noto direttore d’orchestra e compositore di origine ucraina (1912) ricostituiva l’orchestra del Maggio musicale fiorentino. Dallapiccola era rimasto fortemente impressionato dal Salmo per soprano e orchestra di Markevitch, diretto dall’autore durante il XII Festival della S.I.M.C. a Firenze (4 aprile 1934). A testimonianza dell’ammirazione per il giovane direttore cfr. Luigi Dallapiccola, Ottava sinfonia, in «Il Mondo», Firenze, I, n. 2, 21 aprile 1945 e Markevitch interprete della «Nona» di Beethoven, in «La Nazione del popolo», Firenze, 31 maggio 1945 [N.d.C.].

[4] Firenze, Teatro Comunale, 20 maggio 1950.

[5] Thomas Mann, La montagna incantata (1924).

[6] Le scuole italiane erano emanazione degli Enti locali.

[7] Cfr, p. 290 del presente vol. Cfr. anche la lettera di Luigi Dallapiccola a Wolfgang Wagner del 15 aprile 1968, nel programma di sala dei Bayreuther Festspiele, Bayreuth, 1968, in occasione della rappresentazione dei Meistersinger; poi inclusa in Luigi Dallapiccola… cit., a cura di Fiamma Nicolodi, p. 104: «Per anni quest’Opera [Die Meistersinger] mi sembrò la più alta fra quelle di Richard Wagner (…); la amai profondamente e la amo. Come dimenticare, sul palcoscenico di Graz,  nell’atto secondo, l’entrata di Pogner e di Eva, dal fondo della strada, mentre la musica s’imbruna e s’abbassa? Che stia cadendo la sera sarebbe evidente, anche se le luci sulla scena non si estinguessero a poco a poco. Mi accorsi quella sera, e per la prima volta, di che cosa possa essere il paesaggio in musica; mi accorsi che protagonista del secondo atto è la notte di San Giovanni. (Qualche tempo più tardi cominciai a pensare che protagonista del terzo atto di Tristan sia il mare)» [N.d.C.].

[8] A quell’epoca, secondo una tradizione che si fa risalire a Gustav Mahler, il Don Giovanni si chiudeva con la scena della statua, eliminando l’epilogo. [In realtà l’uso di terminare l’opera con lo sprofondamento all’inferno del protagonista è assai anteriore a Mahler: fu normale, tranne rare eccezioni, per tutto l’Ottocento (cfr. R. von Freisauff, Mozart’s «Don Juan» 1787-1887, Salisburgo, H. Kerber 1887) e si prolungò anche per i primi anni del nostro secolo (N.d.C.)].

[9] Dallapiccola portò a termine i suoi studi nel Realgymnasium di Pisino (corrispondente all’incirca al nostro liceo scientifico) [N.d.C.].

[10] Si tratta di Ezio Pattay, scomparso a Firenze nel 1958 [N.d.C.].

[11] «È piccola piccola; una governante ne ha cura. / Tiene in mano una rosa e guarda.» [N.d.C.].

[12] «Che dolce sguardo, l’azzurro! e che dolce nome, Maria! / Tutto è splendore; il suo occhio illumina e il suo nome prega,» [N.d.C.].

[13] «Nel vasto palazzo cattolico romano, / Di cui ogni ogiva sembra al sole una mitra, / Un essere terribile sta dietro ai vetri,» [N.d.C.].

[14] «Tutto sulla terra appartiene ai principi all’infuori del vento» [N.d.C.].

[15] Tra i molti appunti presi per il libretto del Prigioniero, trovo il seguente: «Il faudrait désespérer de la nature humaine, si cette férocité avait été universelle. Heureusement un nombre immense de catholiques détestèrent la Saint-Barthélémy. Une classe fut admirable, celle des bourreaux. Ils refusèrent d’agir, disant qu’ils ne tuaient qu’en justice. A Lyon et ailluers, les soldats refusèrent de tirer, disant qu’ils ne savaient tirer qu’en guerre». [Bisognerebbe disperare della natura umana se questa ferocia fosse stata universale. Per fortuna un gran numero di cattolici detestarono la notte di San Bartolomeo. Una classe fu degna di ammirazione, quella dei carnefici. Si rifiutarono di agire dicendo che uccidevano solo in seguito a una sentenza. A Lione e altrove i soldati si rifiutarono di sparare dicendo che non sapevano sparare se non in guerra»] (J. Michelet, Histoire de France [Guerres de réligion], Parigi, A. Lemerre 1887, p. 451).

[16] I due versi successivi suonano così: «non può d’altronde, chi a sé pria non è morto, / morte patir o torto,» [N.d.C.].

[17] Cfr. F. d’Amico, Canti di prigionia, in «Società», Firenze, I, n. 1, gennaio-giugno 1945, pp. 95-100 [N.d.C.].

[18] Cfr. P. Verlaine, La mort de Philippe II, in Poèmes Saturniens [N.d.C.].

[19] Ora Viale Spartaco Lavagnini.

[20] Sul mio diario trovo annotato, in data 14 novembre 1943:

Lungo, insopportabile viaggio. Si era partiti da Milano da forse tre quarti d’ora, quando il treno si ferma. Dieci, quindici, venti minuti di attesa. Nel nostro scompartimento di terza classe, gremito sino all’inverosimile della gente più variopinta che si possa immaginare, ci sono due canzonettiste; probabilmente fanno parte di un modestissimo complesso di avanspettacolo. L’una, a un certo momento domanda: «Che stazione è questa?». Si fa strada fra i viaggiatori, guarda dal finestrino e dice a se stessa: «Oh, siamo appena a Lodi…» dopo di che comincia a canterellare:

Io non vengo da Lodi per lodare,

né vengo da Piacenza per piacere,

ma vengo da Predappio per predare…

Si trattava evidentemente del frammento di una canzonetta che in qualche variété aveva avuto successo durante i 45 giorni del governo Badoglio. L’altra ragazza le dà una gomitata e le dice: «Sei pazza?» «Non badarci» risponde la prima: «ormai non ci può più succedere nulla» e scrolla le spalle con indifferenza. Non un segno di reazione nello scompartimento.

[21] Precisamente nella villa Le Pozzarelle di proprietà di Leone Massimo, dove Dallapiccola e la moglie rimasero dal settembre 1943 al febbraio 1944 [N.d.C.].

[22] V. Sonatina canonica, pp. 437-439 [N.d.C.].

[23] Cfr. pp. 437-439 del presente volume [N.d.C.].

[24] Dedicatario della Sonatina canonica, il pianista Pietro Scarpini (1911) era stato il primo interprete in Italia con l’Autore e Armando Renzi degli Inni (Roma, Concerti di primavera, 14 aprile 1936). Colleghi al Conservatorio di Firenze dal 1940, strinsero un rapporto di reciproca stima e affetto [N.d.C.].

[25] Sandro Materassi (1904) aveva avuto Luigi Dallapiccola come allievo di violino complementare nel 1926 al Conservatorio di Firenze. Nel 1930 ebbe inizio la loro collaborazione artistica, consolidata da una lunga e fraterna amicizia. Dallapiccola gli dedicò il Congedo di Girolamo Savonarola e le due versioni di Tartiniana Seconda (1955-56).

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