Storico della libertà (1952)

di Luigi Salvatorelli – «La Stampa», 21 novembre 1952; poi, col titolo “Croce, la libertà dello spirito”, in L. Salvatorelli, “La pazienza della storia”, Aragno, Torino 2015, pp. 93-97.

In tutta la storia dell’Italia moderna non sarebbe facile additare uno scrittore che quanto Benedetto Croce abbia associato intimamente alla sua attività letteraria l’influenza civile, o (per dirla con termine crociano, qui particolarmente calzante) etico-politica. Parlo, appunto, di associazione intima, non di giustapposizione o sovrapposizione, come l’Italia ha visto, al tempo del Risorgimento, nel romanziere e pittore Massimo D’Azeglio, divenuto per tre anni presidente del Consiglio nel Piemonte costituzionale. Anche Croce è stato, se non presidente del Consiglio, ministro: ministro della Pubblica Istruzione (come già Francesco De Sanctis, a cui egli si è deliberatamente riattaccato) nel 1920-’21, e ministro senza portafoglio – solo per qualche mese – nel 1944 nel ministero di Salerno. Ma in Croce, come in De Sanctis, non è l’attività politica formale, professionale, quella che ha contato veramente per la sua influenza sulla vita civile della nazione. Il Croce maestro di vita nazionale si identifica pressoché completamente col Croce scrittore, e in particolare con il Croce storico: storico della libertà.

La libertà è per Croce il fondo stesso della realtà: la realtà è spirito, e la vita dello spirito è la libertà. Ma questa libera vita dello spirito si configura per lui e si svolge storicamente: di modo che lo spirito che è libertà è anche storia. È questa una serie di tesi la cui interpretazione e discussione spetta a chi discorre del Croce filosofo. A noi importa, e basta, osservare come a questa posizione filosofica si sia associata di fatto da parte sua una continua ed intensa attività storiografica, con due esplicazioni assai diverse. Per una parte, il Croce è autore di innumerevoli saggi su singoli individui o episodi particolari, di carattere erudito-aneddotico. In essi rifulgono talune fra le migliori e più caratteristiche doti di lui: l’avidità insaziabile di conoscenze di fatti, l’indagine documentaria paziente e scaltrita, la chiarezza di impostazione degli argomenti, la abilità nel cogliere i tratti salienti dei soggetti studiati, la capacità letteraria di esposizione. Appartengono a questa categoria, per citare solo alcune raccolte maggiori, La rivoluzione napoletana del 1799, Una famiglia di patrioti, Uomini e cose della vecchia Italia, Varietà di storia letteraria e civile, Vite di avventure, di fede e di passione. Di fronte a questa imponente produzione saggistica, stanno le ricostruzioni sintetiche di grandi soggetti; la Storia d’Italia dal 1871 al 1915, la Storia d’Europa nel secolo XIX. Intermedie fra i due tipi si potrebbero mettere opere come la Storia dell’età barocca in Italia, la Storia del regno di Napoli.

Se non c’inganniamo, la propensione naturale del Croce era per la storia del primo tipo. Chiunque ha praticato, anche solo un poco, la sua conversazione, non può non ricordare come l’aneddoto, l’osservazione incisiva, e diciamo pure la barzelletta, fossero in lui non una semplice attività marginale, ricreativa, ma la manifestazione condensata di una intima attitudine spirituale di fronte alla realtà.

Ma accanto a questa attitudine ce n’era un’altra, che possiamo dire la vocazione pedagogica di Croce; accanto al riflesso limpido, anche freddo, della realtà passata, c’era in lui la spinta a influire su quella presente. Uno dei suoi libri massimi, La Storia come pensiero e come azione, appartiene al Croce filosofo, e anzi al maggiore. Ma noi sentiamo in esso anche un valore autobiografico, una specie di confessione. Quando Croce ci descrive il circolo per cui i problemi dell’azione spingono alla ricostruzione storica, e questa a sua volta si converte in azione, noi vediamo riprodotto quel che accade al Croce stesso, di fronte al solidificarsi e al perdurare del regime fascista in Italia.

Fino allora, Croce aveva guardato alla politica con un certo distacco. La politica apparteneva al mondo «economico», o – come ha preferito dire più tardi – della vitalità pura; era semplice strumentalità (stato-forza) per la vita superiore dello spirito. (Questa, che era sostanzialmente svalutazione della politica e dello stato, antecedenti allo stadio morale, venne sfruttata dai nazionalisti come supervalutazione). Un tale distacco concorre a spiegare – sebbene non sia l’unica spiegazione – il suo primo atteggiamento di passività quasi benevola verso il fascismo. Che egli non comprendesse dapprima la vera natura, e la gravità, del fenomeno, non farà meraviglia, quando si rifletta che non le comprese un politico professionale della portata di Giovanni Giolitti (e anzi, l’atteggiamento del secondo dovette avere grande influenza su quello del primo). Ma, infine, Croce vide l’essenza del fascismo: negazione della libertà. E il filosofo dello spirito che è libertà, scese a difendere, nell’ambito della realtà empirica, la libertà in concreto, cioè le libertà civili e politiche, individuali e collettive, minacciate e conculcate dal fascismo.

Ancora una volta, non tocca a noi esaminare come si operasse, in sede dialettica, il passaggio, e se, dalla sua concezione filosofica il Croce derivasse soltanto ausilio e stimolo, o non anche freno e imbarazzo. Diciamo invero come l’azione del Croce, paladino della libertà, si svolgesse su due piani: su quello politico-pratico, e su quello teoretico-storico. Egli pagò di persona comparendo in prima fila tra gli esponenti del partito liberale, nella tarda, ma tuttavia decisa impostazione di questo contro il fascismo. Pagò di persona, fino a vedere la sua dimora familiare invasa e devastata di notte dalle bande fasciste, obbedienti a un piano prestabilito. Al Senato, sempre più ampiamente fascistizzato, la sua voce fu una delle ultime che s’intesero in difesa della libertà. Memorabile rimane il suo discorso del 1929, non contro i Patti Lateranensi, ma contro il pericolo di contaminazione fra autorità ecclesiastico-religiosa e assolutismo politico-statale. Questa azione, tanto più meritoria quanto più lontana dalla intima propensione dello studioso, non fu tuttavia la più intensa ed efficace. Ben più che il Croce dirigente del PLI o oratore nel Senato, contò il Croce scrittore. Ogni numero, si può dire, della «Critica» (di cui si vagheggiò, ma non si osò la soppressione), per più di quindici anni, serba qualche traccia di questa lotta continua. La quale, se non fu rivolta direttamente contro il regime politico e l’attività politica fascista – ciò che la natura della rivista e la necessità esteriore impedivano – colpì sistematicamente l’insieme di storture e di bassezze che costituivano del fascismo l’atmosfera ideale e l’humus morale. Fu la goccia che scava la pietra; la pietra dell’ignoranza e del fanatismo.

Accanto alla guerriglia incessante, si ebbero le battaglie campali. Tali furono la Storia d’Italia e la Storia d’Europa. Ci sono due modi di considerare queste due opere. L’uno è la fredda considerazione storico-professionale, che potrà trovare lacune, unilateralità, semplificazioni eccessive. Ma dovrà anche riconoscervi chiarezza di vedute, suggestività di esposizione, sguardo abbracciante le più diverse categorie di fatti, capacità di cogliere oltre la corteccia politica gli elementi spirituali, con l’occhio rivolto alla mèta di una rappresentazione integrale dello svolgimento storico.

Se il giudizio storico-professionale è misto, quello etico-politico è integralmente affermativo: e sotto questo aspetto perfino certe manchevolezze storiche divengono pregio e forza. Certo, l’Italia del post-Risorgimento fu meno «positiva» e costruttiva di quel che appare dal libro di Croce; erano in essa debolezze e storture che fruttificarono nel periodo fascista. Ma i lettori rimasero tanto più attratti da quella rivendicazione dell’Italia liberale, continuatrice del Risorgimento, che il fascismo-Antirisorgimento calunniava e sprezzava. Così, è troppo semplice ridurre tutte le forze costruttive del secolo XIX alla libertà, accantonando il principio di nazionalità, connesso ma non identico al primo. Intanto, però, lo «stupido secolo XIX» veniva illuminato e rivendicato in uno dei suoi valori sentimentali, contro i tentativi dell’«Antieuropa» di ricacciare il popolo italiano nelle bassure tenebrose della reazione spirituale.

Né Antirisorgimento né Antieuropa sono morti, e anzi accennano, attraverso camuffamenti e combinazioni varie, a reviviscenze e controffensive. Lo spirito sopravvivente del Croce gioverà a smascherarle e sgominarle. Contemporaneamente, l’autoritarismo totale di tipo comunistico-staliniano invade e minaccia sempre più largamente sfere del pensiero e della coltura. Contro di esso ha combattuto il Croce la sua ultima battaglia, sempre in nome della libertà dello spirito; e di questo valore supremo la sua opera rimarrà custode e vindice perenne.

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