Croce e Labriola (1975)

di Rosario Romeo – «Il Giornale», 10 luglio 1975

Estratti importanti delle lettere inviate da Antonio Labriola a Benedetto Croce negli anni decisivi di fine secolo in cui maturò la stagione più feconda del loro rapporto intellettuale, erano stati resi noti dallo stesso Croce già nel 1938: e a essi si erano aggiunti altri frammenti e integrazioni pubblicati, per esempio, da Mario Corsi nel suo lavoro sulle origini del pensiero crociano. La raccolta (Antonio Labriola: Lettere a Benedetto Croce 1885-1904, Istituto Italiano per gli Studi Storici, Napoli pp. VIII, 424), che ora Lidia Croce ha tratto alla luce dall’archivio paterno (mentre sembrano tuttora irreperibili, in grandissima parte, le lettere del Croce) non offre dunque novità essenziali per ciò che riguarda quella fase di collaborazione dei due pensatori da cui nacque il momento forse più creativo nella storia del pensiero marxista italiano; ma arricchisce e precisa le nostre conoscenze, mi sembra, in due altre direzioni assai importanti.

Anzitutto, essa documenta una serie di critiche del Labriola alla revisione crociana del marxismo che in vari luoghi sembrano più aspre e forse più penetranti di quanto gli estratti pubblicati a suo tempo dal Croce non consentissero di giudicare. Assai seccamente Labriola asseriva che Croce, autodidatta in tutta la formazione culturale, mancava di «scuola, cioè abito di ragionare sempre con lo stesso metodo e con la stessa veduta»; e che in fondo la sua analisi del marxismo, priva del diretto contatto con le lotte del movimento operaio che è possibile solo in dipendenza della scelta rivoluzionaria, restasse qualcosa di intellettualistico e di «letterario», incapace di cogliere quel nesso vitale fra teoria e prassi che è il cuore stesso del marxismo come pensiero rivoluzionario.

Il tentativo crociano di giungere a una teorizzazione che includesse come determinazioni particolari i concetti adoperati da Marx per l’analisi delle situazioni storiche concrete gli pareva, com’è noto, nient’altro che una forma rinnovata di platonismo. Così che più volte ebbe a consigliare a Croce, al quale profetizzava solo un avvenire di «accurato scrittore di cose storiche» (le cui indagini, fino a quando non aveva investito i temi del marxismo, non gli avevano suggerito né «passionato dissenso» né «entusiastico assenso»), di meditare più seriamente questioni «le quali esigono altro lavoro di prolungata meditazione, di quella che non convenga e basti per la critica storico-letteraria»: alla quale soltanto il «letterato» Croce aveva, a suo giudizio, vera vocazione.

Proposizioni da lasciare interdetti, se non si trovassero a fianco, di altre su De Sanctis ridotto a inventore di una sorta di «galvanismo fraseologico», su Spaventa caratterizzato solo dai limiti assai circoscritti della sua personalità, su Pantaleoni che gli pareva matura «per andare al manicomio»; per non parlare di Bernstein e Sorel, Turati e Ferri, «l’Avanti!» e la «Neue Zeit», accomunati in una serie di invettive e di denigrazioni alle quali non sfuggivano neppure i socialisti arrestati e processati per i fatti di Milano.

Uomini come Turati ritenevano indispensabile prendere le distanze da un personaggio così stizzoso e stravagante: e queste lettere fanno credere che si trattasse di una saggia decisione. Resta, comunque, la dimensione teorica di un dissenso di fondamentale importanza; e se Labriola rappresentava in modo eminente l’istanza rivoluzionaria dell’unità di teoria e prassi, Croce, rivendicava di fronte a Marx l’esigenza, legittima nei confronti di ogni grande pensatore, di tradurne le acquisizioni di pensiero in arricchimenti atti a fecondare il patrimonio della cultura universale, anche in settori assai lontani dal socialismo. Che è un’esigenza e una polemica viva ancora oggi, nell’ambito di dibattiti non troppo mutati da quelli di ottant’anni fa.

Un’altra direzione nella quale ci sembra che la nuova raccolta fornisca indicazioni rilevanti è quella della posizione assunta da Labriola verso la filosofia dello spirito crociana: nei cui confronti la sua ripulsa fu violenta e totale. Gli pareva che Croce fosse tornato alla logica formale, e allo scolasticismo del Wolff; che avesse eliminato ogni dialettica; e che anzi l’idealismo si identificasse con «l’antistorico, l’antidivenire ecc.». È, sentenziava «un arresto dello spirito scientifico, un regresso»; venuto al mondo insieme, con la reazione contro lo storicismo e il positivismo, mescolato con «lo spirito borghese decadente, il cattolicesimo rinato, e una feroce neoscolastica e neosofistica». Dove c’era indubbiamente l’intuizione di esigenze che lo stesso Croce cercherà di soddisfare con i successivi svolgimenti storicistici del suo pensiero, per il quale respingerà più tardi la denominazione stessa di idealismo; ma dove si avverte anche una certa caduta dell’interesse del Labriola per i problemi della teoria filosofica in senso proprio a vantaggio di un dominante interesse pratico-politico.

Non a caso dichiarava a Croce che assai più della sua estetica gli sembravano importanti gli «imbrogli politici» di Aversa e di Napoli, «causa principale del malessere d’Italia»: di quella Napoli che peraltro era destinata a rimanere «una cosa a sé. Cioè una cosa come Damasco, Aleppo, Alessandria: una sub-città del post-impero bizantino, cui non è toccata la sorte di essere governata poi dai Turchi come le sopraddette».

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