I due volti di Crispi (1948)

di Giovanni Spadolini – «Sicilia del Popolo», 30 maggio 1948

Dell’Italia post-risorgimentale, Crispi è stato uno dei più esaltati e vituperati. Si è avuto il torto di volerlo giudicare sempre con una sola misura, di bene o di male; quando invece per lui, come per la maggior parte degli uomini, non può valere un giudizio unico e unilaterale.

Nell’opera politica di Crispi, si possono distinguere, abbastanza nettamente, due periodi. Nel primo, che va dal 1887 al 1891, Crispi continua e anzi sviluppa il processo di «raggruppamento» democratico delle varie forze politiche, che era stato già cominciato con Depretis e col suo «trasformismo». La sola differenza è che Crispi accentua l’importanza del potere di governo rispetto a quella del potere legislativo, e proprio in un momento in cui la vita parlamentare era scaduta di prestigio per il polverizzarsi dei vari partiti nella nazione da una parte ed il loro vario ed eterogeneo combinarsi nella Camera dall’altra.

«Io accetto – disse nel 1887 Crispi – che il Parlamento sia onnipotente, ma è altresì necessario che il potere esecutivo sia potente»: dov’è chiaro che l’accento batteva sulla seconda proposizione piuttosto che sulla prima. Anzi la prima voleva essere solo, in funzione di giustificazione della seconda, un atto di riconoscimento e di omaggio alla virtù delle istituzioni parlamentari, nelle quali egli, da antico democratico e attuale massone, non poteva non credere, ma dalle quali si vedeva spesso impacciato o impedito.

Nel secondo periodo, che va dal 1893 al 1896, il Crispi rinuncia del tutto alle pregiudiziali di democrazia radicale, che in qualche modo eran rimaste attaccate al suo spirito, quasi eco e riflesso di Mazzini, e si volge verso una politica di autoritarismo personale, quasi riprendendo la tradizione di Garibaldi. Proprio Garibaldi, quel Garibaldi che a Crispi doveva l’idea e forse la realtà della spedizione dei Mille, proprio il debolissimo Garibaldi aveva inclinato a un «governo forte» in varie fasi della sua vita e non si era astenuto dal proclamare la sua dittatura in Sicilia nel 1860.

Di fronte all’acuirsi dei contrasti sociali, specie dopo l’apparizione del socialismo, all’indebolirsi del Parlamento, soprattutto dopo la crisi della «Banca Romana» e al ripresentarsi delle questioni internazionali, Crispi si orienta verso una politica di «uomo energico», quale allora da più parti si invocava, temeraria e spregiudicata fino al punto di valersi degli stati di assedio e dei tribunali eccezionali.

Il democratico estremo del Risorgimento diventa così l’estremo conservatore del post-Risorgimento. Il parlamentare convinto della bontà delle istituzioni democratiche si trasforma nel capo consapevole della necessità di un «governo forte». L’universalista, l’internazionalista, educatosi alla Scuola di Mazzini, si muta nel nazionalista e quasi imperialista, educatore d’una scuola che con Mazzini ben poco avrà da spartire.

Il repubblicano fiero, intransigente e ostinato si cangia nel sostenitore d’una Monarchia sovreminente sui partiti e sul parlamento, pernio della vita del paese «il re non è responsabile innanzi al Parlamento ma innanzi al paese» aveva detto Crispi a Umberto. Il ghibellino del ’48 si continua, contraddicendosi, nel protagonista dei maggiori tentativi di conciliazione col Vaticano, da quello dell’87 a quello del ’94, il giacobino del ’48, l’esule di Francia, il francofilo così impregnato di culture e mentalità francese diviene il più tenace avversario della Francia repubblicana.

Sono due volti fra loro inconciliabili? È forse Crispi una contraddizione senza speranza di soluzione? È vero ch’egli ha tradito le posizioni democratiche in vista della sua «dittatura personale»? Quelli che furono gli inquietanti interrogativi della sua generazione tornano a presentarsi a noi.

L’uomo, che appassionò poeti e scrittori, che fu stroncato tra tribuni e da retori, che fu abbandonato da monarchi e da ministri, l’uomo che apparve quasi un «predestinato», l’uomo che suggestionò un’intera generazione, che sembrò continuare e in sé riunire Garibaldi e Mazzini, la forza e la libertà, la nazione e la democrazia, è forse un rinnegato, un apostata? È egli l’«agente della reazione», che ci ha dipinto la storiografia marxista? È egli il «nemico della libertà», che ci ha rappresentato una certa corrente liberale?

Il problema ci sembra assai più complesso. Crispi è uomo del Risorgimento, con tutti i suoi tormenti di grandezza ideale e i suoi limiti d’azione politica. Dopo la formazione dello Stato unitario, sente come pochi l’inferiorità politica italiana. Da buon mazziniano, la sua speranza è d’accendere un’idea nuova, che possa in qualche modo affermarsi nel mondo, avere una sua funzione, una sua missione italiana e universale insieme, giustificare mazzinianamente l’esistenza di quest’Italia risorta per impulso d’ideologie straniere trapiantate da noi e per concorso di potenze straniere interessate a noi.

«La rivoluzione francese – dirà Crispi che pur era per tanta parte uomo dell’89 – ci schiaccia. Essa ancor preme su gli animi nostri e ci tiene avvinti a un ordine d’idee che ci impedisce di camminare su le orme dei nostri padri. Giova rompere questa catena morale…». Come? Qui Crispi si fermava. Egli non era capace, né l’Italia era matura, così attaccati l’uno e l’altra ai principi di libertà e di nazionalità, limiti della fraternità e del pacifismo tipici del Risorgimento, a operare una qualunque trasmutazione ideologica.

E infatti il Crispi vagheggerà o «di riprendere le tradizioni della patria nostra» – assolutamente impossibile quando queste tradizioni rappresentavano particolarismo, anarchismo, servilismo, retorica, accademia, indisciplina, tutto l’opposto di ciò che Crispi sognava per l’Italia, – oppure, come nel discorso di Palermo dell’89, di far dello Stato «il banditore del razionalismo», quasi nuova religione destinata a vincere le vecchie, il che era tanto più assurdo in un paese come l’Italia.

Incapace di suscitare alcun rinnovamento ideale – che non poteva non esser nell’ultimo scorcio dell’ottocento sociale, essendo il socialismo veramente la nuova speranza di una liberazione umana -, Crispi si fisserà sempre più a un rinnovamento politico. L’unità, egli aveva detto molti anni prima nel suo giornale «La Riforma», «fu fatta male ed in fretta». Occorreva cementare, compaginare quest’unità. Ma come?

Non vi eran che due vie: o riformare lo Stato o rafforzare la nazione. Crispi guardò alla prima, ma imboccò solo la seconda. Non vi era per lui altra soluzione che quella, disse una volta, di «dare all’entità della nazione aria respirabile».

Qui è la genesi della politica estera crispina. Sentirà profondamente, egli siciliano, il richiamo istintivo, imperioso del Mediterraneo, sulle cui coste organizzerà scuole e rafforzerà missioni italiane. Avverserà Cairoli per la malcelata politica seguita nell’affare tunisino e rimprovererà Mancini per il rifiuto a occupare l’Egitto insieme con l’Inghilterra. Intenderà l’importanza di Massaia, come trampolino di lancio per la conquista del Sudan e il raggiungimento della Tripolitania. All’Africa del nord volgerà la sua attenzione, talvolta morbosa e spasimosa, temendo l’estensione del protettorato francese alla Tunisia e alla Libia.

Il problema del Mezzogiorno, «annesso» all’Italia piemontese e abbandonato a una miseria e un’incuria sempre maggiore, gli apparirà connesso inscindibilmente con le nostre affermazioni mediterranee.

Accantonerà almeno per un momento la questione continentale, eluderà il problema delle terre irredente, scioglierà le associazioni irredentistiche, dimetterà i ministri simpatizzanti per esse (insegni il caso Selsmit-Doda), perché tutte le energie del paese vorrà rivolte verso l’estero, verso il mare, verso l’Africa.

Sognerà nuove imprese, capaci di fugare l’ombra caduta sull’Italia dopo le prime infelici esperienze militari del Regno, sia sui piani della Valle Padana che sulle ambe dell’Africa orientale: e per questo s’accingerà all’impresa di Etiopia, così tragicamente conclusasi ad Adua.

«Megalomania»? La fortunata parola, coniata dallo Jacini, non basta a spiegare la sua politica. Nonostante i suoi errori e le sue colpe, Crispi ebbe, come pochi, coscienza dei problemi che tormentavano l’Italia uscita dal Risorgimento. Quei problemi non sono ancora oggi risolti.

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