Tramonto del sicilianismo (1970)

di Giuseppe Giarrizzo – «Mondoperaio», a. XXIII, n. 4-5, aprile-maggio 1970, pp. 7-9.

Il discorso sul «sicilianismo», su questa «coscienza insulare-nazionale» che percorre ora in superficie ora nel profondo tutta la storia della Sicilia, è stato fatto più volte (per ultimo da I. PERI, Dal viceregno alla mafia, 1970, pp. 107-20), con intenzioni politiche diverse; e non merita di essere qui ripreso ai fini di un giudizio sulla lunga crisi che ha travagliato la vita politica dell’isola in questi mesi, e sulle conclusioni che da più parti si son volute trarre da essa.

Il sicilianismo, del quale – a mio avviso – la crisi che si chiude con la formazione del secondo governo Fasino ha segnato il tramonto, è piuttosto quel particolare modo di intendere e amministrare il rapporto Stato-Regione, nel quale si riassumono con varia vicenda tanta parte della lotta per lo Statuto regionale e i 24 anni di autonomia siciliana. Ad esser chiari, il sicilianismo dell’art. 38 dello Statuto: «Lo Stato verserà annualmente alla Regione, a titolo di solidarietà nazionale, una somma da impiegarsi, in base ad un piano economico, nell’esecuzione dei lavori pubblici. Questa somma tenderà a bilanciare il minore ammontare dei redditi di lavoro nella Regione in confronto della media nazionale».

Che fondo di solidarietà nazionale fosse traduzione eufemistica di fondo di riparazioni ebbe a dichiarare (dicembre 1945) lo stesso «padre dell’art. 38» (la definizione è dell’on. F. Restivo), il vecchio Enrico La Loggia: «se la Sicilia ha subito gravi torti che hanno ingigantito il divario in partenza, perché non dovrebbe chiedere allo Stato unitario un fondo di riparazioni?» La Loggia, va pur detto, estendeva il principio delle riparazioni, della «giustizia regionale perequata» a tutte le regioni «proletarie» del paese. E però, nello Stato italiano restaurato nei suoi istituti prefascisti, la regione siciliana si inserisce in quanto risposta obbligata all’esistenza di una «questione siciliana». E, per opera dello stesso La Loggia e delle forze che assunsero fin dal primo governo regionale (nel ’47) la direzione della politica autonomistica, l’art. 38 doveva costituire il nucleo qualificante delle rivendicazioni isolane, e attorno ad esso trovarono consistenza i temi del «sicilianismo» come impegno a tener distinta la questione siciliana dalla questione meridionale.

Statuto regionale, autonomia siciliana diventavano così, nella coscienza del ceto intellettuale siciliano e di riflesso nel giudizio di tanta parte della classe politica nazionale, lo strumento di riparazione, di rivendicazione di torti storici antichi e recenti. E la lotta politica in Sicilia, dal ’46 ad oggi, ha ribadito ed esasperato con vario segno i termini polemici di una interpretazione dello sviluppo civile e sociale della Sicilia, che ha posto politica ed economia dell’isola in una condizione di sterile ambiguità. Riportiamoci, per spiegare un giudizio così netto, al dibattito politico che accompagnò in Sicilia la richiesta di uno Stato di regione autonoma, e ne configurò la struttura.

La fase decisiva di quel dibattito si colloca nell’estate-autunno del ’45. La caratterizzarono due episodi, i quali possono dare la misura del ruolo assolto dalla destra siciliana nel processo di involuzione politica che portò in quei mesi da Parri e De Gasperi. Essi furono l’intervista a «Il Quotidiano», con cui S. Aldisio, Alto Commissario per la Sicilia, attaccava duramente la struttura «nordica» del governo Parri; e il decreto Aldisio, relativo alla applicazione nell’isola del decreto Grillo sulla ripartizione dei prodotti nei contratti di colonia. Tra i due episodi si colloca la violenta reazione della stampa siciliana alle dichiarazioni fatte da Parri a Palermo nel luglio ’45 sulla più avanzata esperienza politica del Nord, e sull’opportunità di rinviare alla Assemblea Costituente ogni decisione sull’autonomia da concedere all’isola.

Doveva essere questa la svolta decisiva nel dibattito sull’autonomia siciliana. Mollato il separatismo, la destra isolana voleva ora lo Statuto regionale, e lo voleva subito per chiudere l’isola al «vento del Nord», per garantire un’interpretazione «siciliana» conforme agli «interessi della Sicilia sfruttata, delle temute leggi di riforma che la rivoluzione antifascista minacciava di imporre al paese. Da questa pressione l’autonomismo «democratico» era spinto sulla difensiva: Li Causi e Montalbano e Mineo e Cartia riuscivano solo a far passare il principio di salvaguardia (art. 14 dello Statuto), che l’Assemblea regionale avrebbe esercitato la propria competenza legislativa su diverse materie «senza pregiudizio delle riforme agrarie e industriali deliberate dalla Costituente del popolo italiano».

Le ragioni della diffidenza socialista verso l’istituto autonomista, il timore che per esso l’unità del fronte proletario nazionale risultasse incrinata furono ribadite più e più volte in quei mesi. La maggioranza dei socialisti siciliani (che comprendeva anche molti dei futuri aderenti al PSLI) negava l’esistenza di una questione siciliana diversa dalla questione meridionale; e Nenni ebbe varie volte ad esporre e sostenere energicamente questo punto di vista. Dopo la scissione di palazzo Barberini, anche per la presenza tra le file del partito «saragattiano» di elementi di estrazione democratico-sociale o riformistica, le tesi autonomistico-sicilianiste trovarono nel PSLI maggior credito. Mentre la politica della unità d’azione chiamava, pur non senza disagio, i socialisti del PSI nell’area del «sicilianismo» di sinistra definita dal PCI.

Ché il PCI ha avuto, in questa vicenda, un ruolo sin dall’inizio determinante. Contro le forti riserve antiautonomistiche presenti nella base del partito in Sicilia («se rimarremo chiusi in una organizzazione autonoma regionale, avverrà che la maggioranza verrà conquistata dalle forze della reazione che in Sicilia sono ancora prevalenti… e avremo il risultato che, mentre nel passato è stata l’organizzazione centralizzata ad impedire il progresso della Sicilia, ora sarà l’organizzazione autonoma perché tenuta dagli elementi della reazione»), Togliatti tra il ’46 e il ’48 ribadiva la tesi opposta: «Sappiamo tutti più o meno che, da quando si è costituito il regno d’Italia come regime unitario, attraverso un’organizzazione centralizzata, alla Sicilia sono stati fatti dei torti: tutte le province, tutte le regioni del Nord sono piene di fabbriche mentre in Sicilia non ce n’è mai stata una. In Sicilia esistono materie prime per certe industrie, ma non vengono lavorate in Sicilia, sono portate al Nord o all’estero. La politica economica e finanziaria del governo centrale, appoggiata dagli stessi elementi reazionari siciliani, ha bloccato la possibilità di sviluppo industriale dell’isola, di elevamento del livello della sua economia e del tenore di vita dei suoi abitanti». Il PCI deve farsi interprete di questo generale stato d’animo di «ribellione e diffidenza contro il governo del continente». Il problema dell’autonomia non è sentito dai braccianti («per sentire il problema dell’autonomia occorre una certa cultura, la conoscenza delle tradizioni dell’isola, …un certo sviluppo intellettuale»), non dagli operai dei piccoli cantieri di Palermo e di altre città. È sentito dalla piccola e media borghesia, che urge staccare dai così detti gruppi dirigenti, dalla grande proprietà fondiaria, per conto della quale essi hanno finora governato. Questa «frattura fra le forze reazionarie dell’isola» era indicata da Togliatti come la premessa per la rinascita della Sicilia.

Assumendo (sarà la linea Li Causi) la rappresentanza dei «contadini» siciliani e accogliendo nelle proprie file nuclei consistenti di intellettuali, il PCI siciliano ne faceva propria la protesta, tal quale era nella tradizione politica della borghesia isolana, con la sua forte componente sicilianista, tentando di promuoverla dal piano del moralismo a quello della politica. Si introduceva così, nello schema dell’alleanza Sud-Nord, contadini-operai, una questione siciliana che confondeva gli obiettivi e depotenziava l’impegno meridionalista. Il tratto qualificante era costituito dalla esistenza di un parlamento, i cui dibattiti avrebbero contribuito ad elevare il tono del discorso politico nell’isola, e la cui attività legislativa avrebbe dovuto costituire un punto di riferimento costante nell’impegno delle sinistre di portare esigenze e soluzioni al livello della coscienza popolare. Il momento politico veniva così ad assumere un rilievo tanto maggiore, quanto più povera e incerta, frammentaria e corrotta si sarebbe rivelata la pratica amministrativa.

Ma l’autonomia siciliana iniziava la propria storia nel clima della guerra fredda. Sicché, fin dalla prima legislatura, la tensione tra autonomismo conservatore e autonomismo democratico mutava di segno. La Costituente non aveva dato al paese la riforma agraria e la riforma industriale, l’unità antifascista era in frantumi, l’impegno restauratore dello Stato prefascista non trovava più resistenze nella DC. La destra siciliana vede dileguare i timori più gravi di trasformazione delle strutture del paese; la destra nazionale, che nello Statuto ha visto una trincea all’offensiva delle sinistre, ritiene ora di poterla smantellare. È l’offensiva dello «Stato» degli anni ’50: l’Alta Corte per la Sicilia entra (1967) in quiescenza, il commissario dello Stato presso la Regione inaugura un’intensa attività di impugnazione di leggi e decreti regionali, Corte Costituzionale e Corte dei Conti portano avanti con successo un’interpretazione restrittiva dei poteri e delle funzioni che lo Stato attribuisce alla Regione e ai suoi organi. E gli stanziamenti dell’art. 38 vengono considerati non aggiuntivi ma sostitutivi degli interventi finanziari degli organi centrali.

La sinistra assume, in questo clima, la difesa dell’autonomia e dei suoi istituti, e denuncia gli ambigui risvolti di una politica regionale che amministra il rapporto Stato-Regione come un gioco delle parti spregiudicato nell’area di potere della destra nazionale. E il PCI agita la bandiera sicilianista e chiama a raccolta quei settori della DC più legati a prospettive regioniste, i resti dispersi dell’indipendentismo piccolo-borghese, i ruderi della destra isolana travagliata da una crisi che non è solo politica. Ne verrà fuori il cosiddetto «milazzismo». L’operazione che, com’è noto, prese il nome dall’on. Milazzo e da una pattuglietta di democristiani sicilianisti, eredi dell’indipendentismo cattolico dell’on. La Rosa o provenienti dai resti disfatti della sinistra DC. Essa non costituì un’alternativa, e non inaugurò quella svolta nella politica siciliana e nazionale che il PCI credette di poter proclamare. Ma pose fine all’alleanza tra la DC e la destra liberalqualunquista, mentre consacrò l’avvento nella DC isolana di nuove figure di politici. Il PSI siciliano non giudicò con favore l’operazione Milazzo e non intese parteciparvi.

Alla fine degli anni ’50, nonostante il milazzismo, il giudizio sull’autonomia siciliana si fa da parte degli stessi comunisti sempre più critico. Già nel ’57, Togliatti aveva preso atto del fallimento della vecchia prospettiva dell’autonomismo democratico. Neppure l’attività parlamentare ha più il profilo positivo degli anni precedenti: «I problemi della rinascita della Sicilia sarebbero stati risolti se si fosse creata dall’inizio, e mantenuta in tutto il seguito di questi dieci anni, una grande unità delle forze popolari alla direzione della vita dell’isola. Questa unità non si è mantenuta, e quindi abbiamo dovuto seguire… il metodo di una pressione continua dal basso attraverso agitazioni, movimenti di massa nelle campagne e nelle città». L’avvento del petrolio, la presenza nell’isola della grande industria monopolistica, l’esodo consistente dalle campagne immettono nel quadro istituzionale della Regione elementi e problemi nuovi: il problema dell’industrializzazione isolana prende quota accanto al tradizionale problema della riforma agraria. È la svolta degli anni ’60.

La parola d’ordine della politica siciliana è quella nazionale del centro-sinistra: politica di piano e programmazione. Si apre una vicenda, i cui tratti essenziali sono chiari, anche se troppi particolari rimangono ancora nell’ombra e attendono di essere posti in luce. La polemica comunista contro la programmazione nazionale, strumento del neo-capitalismo monopolistico, ha in Sicilia particolari riflessi: fumosi e spesso folli progetti di politica «mediterranea» (si pensi alla gestione La Cavera della SOFIS) sono presentati e accolti come manifestazioni di autonomia, di autonoma ricerca di interessi siciliani; la programmazione per l’isola deve operare come elemento di rottura rispetto alla politica economica nazionale. Il «sicilianismo», con i suoi logori refrains sullo sfruttamento del Nord e del governo centrale, sostiene la polemica della opposizione del PSIUP e del PCI e insieme giustifica la speculazione avventurosa di vasti settori della destra siciliana (in cui la DC si riconosce largamente).

A sinistra, i socialisti del PSI ribadiscono l’urgenza di una programmazione della politica di sviluppo dell’isola, che si inserisca nel contesto della programmazione nazionale potenziando le istanze di progresso del Mezzogiorno. Al centro e a destra, la polemica passa attraverso i partiti. Taluni settori della destra liberale e della DC insistono sul coordinamento tra programmazione regionale e nazionale, ma ne definiscono al tempo stesso con chiarezza senso e limiti: se «il problema dello sviluppo economico della Sicilia non è tale da esser risolto dai siciliani da soli», se «la sua soluzione – come del resto per tutto il Meridione – dipende dallo Stato e dalla sua volontà di considerare la questione meridionale sempre più nazionale», la politica economica della Regione deve essere orientata a facilitare l’insediamento nell’isola di imprese capitalistiche nazionali ed estere produttrici di beni. Alla politica sterile dei lavori pubblici va sostituita una politica di favore per il capitale, e il grande capitale privato! Sono le tesi che Scelba, Azzaro e Stagno d’Alcontres son venuti sostenendo da ’64 ad oggi, e di cui «La Sicilia» di Catania è portavoce abituale. È la critica da destra della gestione DC del potere regionale. La DC che conta, quella delle province centro-meridionali, della Sicilia «profonda», continua invece a perseguire propositi di blanda opposizione sicilianista: a parte la ripresa di proposte come quella della Sicilia zona franca, essi si imperniano sull’appello ora patetico or minaccioso allo Stato che ignora la Sicilia. Frutto insieme di arretratezza culturale e di rozza furberia politica, questi propositi si riassumono nel gesto della mano pronta a colpire, quando l’altra si apre alla elemosina ministeriale.

Epperò Avola, la lotta per l’abolizione delle gabbie salariali, la stessa tragedia del Belice hanno riproposto – sul piano nazionale e regionale – la questione siciliana in termini demistificati. L’aspra battaglia politica sull’ordinamento regionale, che ha chiamato in causa con tanta insistenza l’esperienza della Sicilia regione autonoma, ha costretto a ripensare al senso vero dei rapporti Stato-Regione, tra il vecchio Stato accentrato e una regione costretta a intendere e realizzare la propria autonomia più come strumento riparatore di torti che come esperienza di promozione civile e sociale. Solo nel nuovo Stato regionale l’autonomismo democratico potrà trovare condizioni per affermarsi, senza dover ricorrere al motivo ambiguo del sicilianismo. Entrato in crisi già da tempo, nel corso d’una vicenda che ne ha rivelato distorti aggiustamenti ed equivoci, in un’Italia a struttura regionale il «sicilianismo» è destinato a diventare uno strumento polemico inutile, da destra e da sinistra. Lo sanno bene i sindacati siciliani, che hanno posto ben al di fuori di questa tradizione il loro impegno di rilancio meridionalistico.

Chi non tenga conto di ciò, e delle prospettive che esso apre ad una più chiara articolazione della lotta politica in Sicilia, non coglierà appieno – io credo – il significato che può avere per la vita dell’isola la lunga crisi aperta dalla denuncia socialista e chiusa per il momento con la formazione del secondo governo Fasino. Sicilianismo e questione siciliana hanno veramente concluso la loro parabola.

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