[Tasso, la musica e i musicisti]

di Luigi Ronga – In “Lezioni di storia della musica”, Tomo I, Accademia Nazionale dei Lincei, Roma 1991, pp. 445-461.

1. Tasso e la musica

Sarà bene riconoscere subito che un argomento come «Tasso e la musica», per l’ambiguità e la generica ampiezza della sua enunciazione, può destare qualche non ingiustificata diffidenza. Si vuole alludere cioè a quelle considerazioni che, pur muovendo da fatti ed atteggiamenti nei quali è giusto ravvisare l’affinità o i legami di un poeta con l’esperienza delle altre arti, finiscono per dar luogo ad esercitazioni di carattere più letterario che critico. Le pagine che seguono vorrebbero invece riportare l’analisi di questo rapporto agli elementi di più concreta storicità.

Un problema preliminare è quello che riguarda la «musicalità» della poesia tassesca, sul quale non è possibile sorvolare perché quasi tutti gli interpreti nelle loro sottili analisi si richiamano volentieri agli elementi «musicali» dai quali è particolarmente contrassegnato il fascino di quella poesia. Altra volta ci siamo occupati («Tasso e Monteverdi» in «Arte e gusto nella musica. Dall’Ars nova a Debussy», R. Ricciardi, Milano-Napoli 1956, pagg. 19-32), con una relativa larghezza, di questo problema allo scopo di chiarire che duplice risulta il significato del concetto di «musica» applicato alla poesia. Si trattava cioè di distinguere che «di tutta la più grande poesia si è sempre riconosciuto elemento fondamentale una tipica e singolare musicalità: e mal si saprebbe additare un vero poeta privo di un suo personale dono melodico». In cui è evidente che musica e melodia sono usati ora come sinonimo, ora come metafora del concetto stesso di poesia. «Poesia non musicale, a rigore si può dire che non esista: che i versi duri, goffi e contorti cadono dalla memoria per il loro stesso peso verbale, privi di quel misterioso palpito ritmico e melodico che tende a sottrarsi, per sua natura, all’analisi più serrata». E che il ritmo possa essere mobile e rotto e «irregolare», la melodia aspra e forte e per così dire «dissonante» per indicare appunto immagini e momenti di particolare tensione: tutto questo rientra, e mirabilmente, nel concetto di «musica» ossia di poesia.

Così, si possono indicare le ragioni critiche dalle quali l’interpretazione della «musicalità» del Tasso ha tratto le sue più concrete giustificazioni; e non è dubbio che la determinazione del valore critico o soltanto metaforico di essa è un’indagine che rientra nel compito specifico della critica letteraria e coincide in sostanza con l’analisi stessa della poesia. E per tale ragione s’impone come un limite alla ricerca che voglia invece mantenere alla musica il suo significato proprio, di espressione artistica configurata nel suono anziché nella parola. È ovvio che occorre tener presente tale distinzione non per dedurne in sede estatica la diversità delle arti, ma per ricordare come necessariamente gli schemi critici sorgano dalla configurazione stessa delle espressioni artistiche e nel passaggio del loro uso da un’arte all’altra inevitabilmente acquistino un valore metaforico. Altrimenti si hanno irrigidimenti e sforzature derivanti dalla particolare natura del così detto mezzo espressivo su cui quegli schemi sono in origine modellati. Le difficoltà di tale passaggio sono più sensibili quando s’insiste su di un certo materiale adattamento degli schemi allo scopo di metter in rilievo identità o analogie che inevitabilmente si perdono nell’astratta comparazione tecnico-formalistica, mentre d’altra parte tali tentativi illuminano delicati problemi d’interpretazione storico-culturale. E l’esempio forse più tipico riguarda proprio l’età alla quale appartiene il Tasso: e cioè l’applicazione fatta dallo Spoerri (Theophil Spoerri, «Renaissance und Barock bei Ariost und Tasso», Bern, 1922) per la poesia e […] dal Sachs per la musica delle cinque famose coppie di concetti antitetici usati dal Woelfflin per definire il passaggio stilistico dal Rinascimento al Barocco.

Per la musicalità della poesia tassesca non si è mai giunti all’adattamento di schemi definiti, ma, come s’è detto, si è piuttosto voluto cogliere un tono dominante, in cui la qualificazione di «musicale» assumeva un significato concreto quando nella poesia del Tasso identificava un carattere che traeva sì, metaforicamente, vigore dal concetto di musica, ma in quanto assimilato nella poesia, acquistava un nuovo significato propriamente «letterario». In tale valore metaforico i termini attinti dall’esperienza musicale mirano a metter in rilievo gli elementi concreti, individuali dell’espressione poetica. Così conduce la sua analisi il Fubini (Mario Fubini, «Osservazioni sul lessico e sulla metrica del Tasso», in «Studi sulla letteratura del Rinascimento», Firenze, 1937, pp. 237-70) quando i caratteri e l’anima della poesia tassesca coglie attraverso penetranti osservazioni sul lessico e sulla metrica, per giungere ad afferrare l’immagine fantastica nel suo più geloso valore poetico. Proprio da questa concretezza di riferimenti assumono preciso significato critico, per fare un esempio, i passaggi, così acutamente indicati, dalle parole-segni alle parole-miti, la funzione ed il valore della parola-tema, individuata come «leit-motiv»; rilievi tutti che così disvelano non una materiale, ma segreta analogia del processo di creazione musicale e poetico. In tal modo l’analisi si solleva per un verso dallo studio, in un certo senso materializzato, della musicalità considerata nella struttura del verso (Dante Bianchi, «Della “musicalità” considerata nella struttura del verso», in «La Rassegna», serie IV, a. XXXIII (1925), pp. 81-113, cit. dal Fubini), e per l’altro evita il pericolo che la vaghezza metaforica del termine «musica», passando dall’arte alla critica, concorra ad ammollire ed estenuare la necessaria nettezza dell’analisi, stemperandola in un’atmosfera di sensuali ed irrazionali sonorità. Cosicché, quando qui si studiano i rapporti fra il Tasso e la musica, questa s’intende non come un nostalgico anelare ad una diversa ed irraggiungibile perfezione di un’altra arte, ma come espressione considerata in una sua precisa e storica esperienza. A questa distinzione ci riconduce il poeta stesso quando in un suo Dialogo viene a trattare appunto dei rapporti fra la poesia e la musica, fornendoci un’autentica testimonianza della sua partecipazione ai problemi largamente dibattuti nell’età in cui gli incontri fra poesia e musica realizzati in opere d’arte di alta e raffinata civiltà s’impongono alla riflessione critica dei contemporanei.

Già nelle rime occorrono passi direttamente ispirati dalla musica in cui l’immagine ora può felicemente diventare tocco di poesia con trepidi annunci di musicali vibrazioni; ora trasformarsi in artificiosa sottigliezza concettuale, quando, ad esempio, il poeta «scrive a la signora Lucrezia d’Este, duchessa d’Urbino, mostrando che la cagione che ritorniamo al cielo è per tre strade: quella de l’amore, de la musica e de la filosofia» (Sonetto «Per tre sublimi vie sovra le stelle», «Le Rime»).

Com’è noto, molte liriche del tempo erano scritte in vista della loro integrazione melica; così talvolta si spiega come i poeti sovente cedano ad una certa generica vaghezza, in loro generata dalla convinzione della precaria autonomia dell’espressione verbale destinata poi ad essere riassorbita in una nuova modellazione melodica. E qui si può accennare almeno di sfuggita alla perizia palesata nelle rime dal Tasso, ricco di una tradizionale esperienza ch’egli aveva del resto ripreso e continuato nello stesso ambiente familiare. A questo proposito ricordava di recente l’Einstein che Torquato aveva ereditato dal padre l’ufficio di «poeta per musica»; Bernardo Tasso aveva dichiarato che nei propri versi volgeva cura particolare al «grandissimo artificio, affine che soddisfacciano al mondo, perché etiandio, ch’io non habbia giudizio di musica, ho almeno giudizio di conoscer quali debbiano esser le composizioni che si fanno per cantare. Elle son piene di purità, d’affetti amorosi, di colori, et di figure accomodate a l’armonia». Il figlio ebbe invece giudizio sottile, ed a prescindere da quelle che sono state le preferenze personali, cui egli stesso più volte accenna, per musiche e musicisti, attraverso la lettura dei testi antichi e medioevali anch’egli si fa un’immagine mitica di quella musica greca che nel corso del secolo sempre più suscita interesse nei musicisti teorici e pratici. E per tale interesse il Tasso era naturalmente portato a considerare la musica secondo la concezione ellenica, ossia nei suoi più stretti rapporti con la poesia: così nel libro sesto dei «Discorsi del poema eroico», pubblicati, dopo un’annosa elaborazione, nel 1594, l’interesse per la musica è testimoniato da una breve delineazione storica in cui c’è una prima lode della gravità della musica che conviene ai poemi eroici, e dunque di quella poesia che «può assai acconciamente esser cantata con armonia dorica, e con alcuna simile, s’in questa età n’abbiamo simigliante, la qual non riceva molte mutazioni, e somigli quella lodatissima non solo da Socrate e da Platone» ma anche da molti altri scrittori antichi. «Ma la musica frigia, e la lidia, e quella che di queste è mescolata, sono più ricercate ne le tragedie e ne le canzoni, sì come in quelle che possono commuover gli animi e quasi trarli di sé stessi, ma non sono atte ad ammaestrarli: … E perché la musica non fu trovata solamente per trattenimento de l’ozio, o per la medicina e quasi purgazione de l’animo, ma per ammaestramento ancora, come piace ad Aristotele ne l’ottavo de la Politica, potrà la musica grave e stabile e simile alla dorica servire meglio d’alcun’altra al poema eroico: però né primi tempi furono i medesimi i musici e i poeti, come Lino, Orfeo, Olimpo, Femio. Da poi queste arti fur diverse per l’umana imperfezione, per la quale non bastiamo a molte cose». Così, per concludere, il poeta avvertiva «che nel poema eroico si richiede principalmente la musica, la qual conservi il decorso de’ costumi, e la maestà, come faceva la dorica, e si schivino quelle soverchie perfezioni, o imperfezioni, per le quali Timoteo, che a le sette corde aggiunse molte altre, è biasimato da Ferecrate comico, da cui fu introdotta in scena la Musica a lamentarsi con la Giustizia di essere stata lacerata da Timoteo» («Discorsi del poema eroico», in T. Tasso, «Prose», a cura di Francesco Flora, Milano, 1935, pp. 531 e 533).

Questi pensieri sulla musica sono patrimonio comune dei contemporanei sul quale cresceranno e meglio si preciseranno altri problemi, sino alle discussioni della Camerata dei Bardi; ma, in più, non può stupire che il Tasso, come poeta, manifesti particolari interessi. Ad esempio, egli stabilisce una certa gerarchia delle forme, come si rivela da un passo del dialogo «La Cavaletta» in cui il sonetto è giudicato il più adatto al nobile stile, «ma per le materie umili, e per l’umili diciture è assai convenevole la forma de’ madrigali, e fra’ madrigali quelli ancora sono più convenienti all’humil dicitore, i quali veggiamo ripieni d’eptasillabi, o regolari, o irregolari…». E poiché nonostante questo giudizio il Tasso fu assiduo autore di madrigali, ch’egli certo non poteva considerare «umili», l’Einstein per spiegare la contraddizione pensava che quelle parole palesassero la tendenza letteraria del tempo ormai giunta al suo culmine «ed in effetti diventa una sorta di parodia ed insieme la negazione d’ogni freschezza ed ingenuità poetica, quando i testi erano ridotti a semplici collezioni di citazioni famose» (A. Einstein, The Italian Madrigal, Princeton 1949, vol. I, p. 211). Nei proprii madrigali il Tasso era naturalmente portato a rivendicare l’autonomia espressiva frutto dello stesso pregio poetico e così in lui s’insinua quella riserva verso l’azione della musica nei riguardi della poesia, riserva ripetuta nelle idee che il Tasso fa scambiare da due personaggi nel citato dialogo del 1584, «La Cavaletta, o vero de la poesia toscana», in cui il poeta stesso celato in un Forestiero napoletano si rivolge ad una di quelle colte gentildonne, onde la società cinquecentesca fu leggiadramente ornata.

Il Tasso esclude che alla poesia epica, ossia l’ottava rima, convenga un rivestimento musicale, perché «essendo più uniforme, riceve minor varietà di modulazioni». La gentildonna, Orsina Cavalletta, osserva a questo punto di aver ascoltato versi di Virgilio cantati con accompagnamento di lira; tuttavia l’attenzione del Tasso si volge alla poesia lirica. Dice infatti il Forestiero napoletano: «Ma le canzoni hanno bisogno de la musica quasi per condimento. Ma quale cercherem noi che sia questo condimento? qual piace a’ giovani lascivi fra’ conviti e fra’ balli de le saltatrici; o pur quello ch’a gli uomini gravi ed a le donne suol convenire?» – O.C.: «questo più tosto». – F.N.: «Dunque lasciarem da parte tutta quella musica, la quale, degerando, è divenuta molle ed affeminata: e pregheremo lo Striggio, e Iacches e ‘l Lucciasco e alcun altro maestro di musica eccellente, che voglia richiamarla a quella gravità, da la quale traviando, è spesso traboccata in parte, di cui è più bello il tacere che ‘l ragionare».

Il Tasso condizionava la propria richiesta ai perduranti motivi umanistici della cultura musicale del suo tempo. Quell’aspirazione verso il modo grave già espressa nei «Discorsi del poema eroico» proveniva al Tasso dai nostalgici vagheggiamenti dei teorici cinquecenteschi che si richiamavano ai modelli ritenuti melicamente perfetti dell’antica poesia greca. Si trattava in realtà del desiderio di una musica lontana e favolosa, ché altro a quel tempo non poteva essere quel «modo grave» che il Tasso pensava «simile a quello che Aristotele chiama “doristì”, il quale è magnifico, costante e grave, e sopra tutti gli altri accomodato alla cetera». Di questo si tentava allora a Firenze una prima pensosa ed affaticata reincarnazione dai teorici, poeti e musicisti della Camerata dei Bardi: non molti anni ancora, e il Monteverdi avrebbe soffiato mirabile vita alla monodia, al canto a voce sola, rivelatore di un nuovo stile. Comunque, di una sola cosa mostra timore il Tasso: che una musica «effeminata» aggiunta alla sua poesia, la svigorisca e scorpori per troppa mollezza. Di qui la richiesta del valore che una musica, sulla suggestione della poesia, deve assumere, non per la leggiadria di senso, ma per gravità di sentimento.

Questi passi sono sufficienti a delineare il pensiero del Tasso nei riguardi della musica. Egli aderisce totalmente a quella concezione che sin dall’antichità Platone aveva formulato, ossia della musica sottomessa alla poesia: ma se nei Greci l’impostazione era nettamente intellettualistica, nel Tasso si aggiungeva un tono più accentuatamente edonistico, quando appunto ribadiva che «le canzoni hanno bisogno de la musica quasi per condimento». Ma sempre riferendosi all’«ethos» che dai Greci era richiesto a caratterizzare la musica, egli raccomandava l’armonia doristì, ossia il modo grave, virile e educativo; contemperando così il proprio pensiero con le esigenze generali di un’arte educativa accentuate dalla Controriforma. Ma commentava l’Orsina: «Cotesto non mi spiace: ma pur niuna cosa, scompagnata dalla dolcezza, può essere dilettevole»: ed il Tasso faceva ribattere dal Forestiero: «Io non biasimo la dolcezza, e la soavità, ma ci vorrei il temperamento; perché io stimo che la musica sia come una delle arti pur nobili, ciascuna delle quali è seguita da un lusinghiero simile nell’apparenza, ma nell’operazioni molto dissomigliante…».

Nella distinzione delle arti il Tasso chiedeva che dolcezza e soavità fossero temperate dalla gravità: all’edonismo che la musica poteva accentuare egli opponeva ragioni etiche, come tanti teorici del suo tempo. Ma innanzi tutto egli difendeva l’autonomia della propria poesia: ed è quello che ragionevolmente compie ogni poeta quando chiede che – condimento od ornamento – la musica si aggiunga alla poesia senza turbarne o modificarne l’espressione in sé perfetta e compiuta. Noi sappiamo che nell’atto di creazione individuale ogni precedente è annullato e rifuso nella nuova forma: ma i poeti d’ogni tempo di fronte al musicista chiedono che egli soltanto commenti e adorni la poesia. I poeti, che non sono filosofi, possono sentire il fascino della musica, gareggiare con essa nell’impalpabile ed aerea trasfigurazione di effetti ritmico-melodici, ma sempre saranno naturalmente condotti a considerarla ancella, quanto più è possibile gentile e sottomessa, a quell’esigente padrona ch’è la poesia, la propria poesia. Al massimo un’ideale equiparazione di diritti, come omaggio all’eguale dignità delle Muse sorelle. E dai poeti in effetti non possiamo chiedere di più.

2. Tasso e i musicisti

Numerose e importanti furono le relazioni anche personali che il poeta ebbe con l’ambiente musicale, a Ferrara in special modo fiorente durante il Cinquecento. Sulla vita musicale della città copiose sono le notizie, ma ancora manca uno studio d’insieme che meglio potrebbe mettere in rilievo l’atmosfera propizia nella quale si svolsero, con stretta e reciproca suggestione, le più varie esperienze meliche: dall’intonazione di testi poetici già per sé stessi intrisi di una musicale mollezza, alla partecipazione, anzi all’integrazione, della musica con altri testi che suggerivano più palese movimento drammatico, come nella favola pastorale. E come la vita musicale di Ferrara non è chiusa in sé stessa, ma in continuo e stretto rapporto con quella italiana, delle regioni settentrionali in particolar modo e di Mantova sopra tutto, in quella delineazione viene ad inserirsi naturalmente tutto quel che riguarda i rapporti del Tasso con la musica: vale a dire il commercio umano e sociale che il poeta ebbe con i compositori del suo tempo e gli avvenimenti musicali con i quali venne a contatto; e sopra tutto interessante quello ch’egli, come poeta dai tormentati interessi critici, sentì e pensò della musica.

Non indugeremo a raccogliere qui le notizie sui rapporti personali del Tasso con numerosi musicisti che si possono ricavare dagli accertamenti biografici e dalle testimonianze lasciate dal poeta stesso nelle dediche, negli invii poetici e nelle lettere. Ricorrono specialmente i nomi di Luzzasco Luzzaschi, insigne compositore ferrarese che fu maestro del Frescobaldi, di Alessandro Striggio, di Giaches de Wert, e sopra tutti quello di Carlo Gesualdo principe di Venosa che, dopo il tragico suo duplice omicidio fu per qualche tempo a Ferrara per sposare in seconde nozze la principessa Leonora d’Este, cugina del duca Alfonso II. E non pochi sono i riferimenti ad esecuzioni ed esecutori, come il ricordo di quel Giulio Cesare Brancaccio, che fu soldato e scrittore di argomenti militari, ma anche stipendiato da Alfonso II per la sua bella voce di basso, celebrata dal Tasso nella poesia «Mentre in voci canore» e sopra tutto del famoso «concerto delle dame» della corte ferrarese costituito, oltre che da Anna figlia di G. B. Guarini sonatrice di liuto, da Tarquinia Molza, Lucrezia Bendidio e Laura Peperara: «Dame della Serenissima Duchessa di Ferrara, per la musica sua segreta, veri simulacri delle Tre Grazie» come vengono celebrate da Ercole Bottrigari nel suo «Desiderio». Di Lucrezia e di Laura il Tasso fu innamorato ed a quest’ultima dedicò il «Lauro verde», una raccolta di 34 madrigali a sei voci che furono intonati, tra gli altri, da un gruppo di musicisti ferraresi quali Fiorini, Milleville, Isnardi e Luzzaschi.

Dei tre musicisti ricordati dal Tasso nel Dialogo citato, Jacches merita particolare considerazione. Di Giaches de Wert si ricordava di solito la vita avventurosa, il ricambiato e sfortunato amore per Tarquinia Molza e poco o nulla della sua musica. In lui è da riconoscere il dedicatario di quella poesia «Queste mie rime aperte» dal Tasso indirizzate «Ad un Musico, che avea posto in musica alcuni madrigali». Del Wert appunto si hanno le prime composizioni su poesie del Tasso: assai presto, poco dopo il 1573, quella sul sonetto «Tolse Barbara gente il pregio a Roma», in lode della bellezza della contessa Barbara Sanseverino, pubblicato nel sesto libro dei madrigali (1577). Nel settimo libro (1581) si trovano un altro sonetto «Donna se ben le chiome», e due passi della «Gerusalemme liberata» che sono probabilmente i primi messi in musica e pubblicati alcuni mesi avanti che fosse pubblicata la prima edizione autorizzata del poema (Ferrara giugno 1581): «l’uno è una descrizione lirica («Vaghi boschetti», C. VI, st. 21), l’altro è una descrizione semi-drammatica («Giunto a la tomba», C. XII, st. 96 e 97). Con l’ottavo libro (1586) il cambiamento è completo; l’opera appartiene al Tasso ed insieme ad un nuovo stile concertato. L’ultimo Wert non è più un successore di Rore; è il contemporaneo di Marenzio, di Gesualdo e del giovane Monteverdi ed uno dei precursori e fondatori della musica del secolo XVII» (A. Einstein, op. cit., p. 519). Tocca all’Einstein, tra gli altri suoi meriti, quello di aver tratto dal grigiore delle citazioni affrettate e generiche la figura di questo compositore fiammingo da lui posto sullo stesso piano di Orlando di Lasso e di Filippo de Monte, che insieme formano il gruppo dei tre grandi madrigalisti «oltremontani». Ma il Wert è il primo compositore che alla poesia del Tasso abbia attinto le sue migliori e più originali ispirazioni.

E con i tre nomi di Marenzio, Gesualdo e Monteverdi l’arte poetica del Tasso esercita le sue seduzioni più profonde e dirette. Luca Marenzio nella dedica al conte Mario Bevilacqua di Verona del primo libro «Madrigali a quattro, cinque et sei voci», con la data di Venezia, 10 dicembre 1587, scrive di averli «composti con maniera differente dalla passata, havendo, et per l’imitazione delle parole et per la proprietà dello stilo atteso ad una (dirò così) mesta gravità, che dagl’intendenti pari suoi, et dal virtuosissimo suo ridutto sarà forse via più gradita». Anche qui un mutamento di stile, ed è ancora l’Einstein a supporre che il Marenzio, presa forse coscienza della «sensualità» delle sue più recenti composizioni, avesse appunto cercato di adeguare la «mesta gravità» della propria espressione musicale alla «gravità» poetica che il Tasso nel ricordato dialogo «La Cavaletta» aveva proposto come un ideale e necessario ritorno, per risollevare la musica effeminata del tempo dalla decadenza in cui era via via venuta e trovarsi.  E forse di tale proposito può darsi abbiano parlato alcuni anni dopo a Roma quando entrambi si ritrovarono nell’accademia del Cardinale Cinzio Aldobrandini nipote di Clemente VIII.

Più noti sono i rapporti di amicizia del Tasso con Carlo Gesualdo principe di Venosa conosciuto nei soggiorni napoletani del 1588 e del 1592 e poi durante la permanenza di Gesualdo a Ferrara per le sue seconde nozze con Leonora d’Este; più volte il Tasso ebbe occasione di ricordare il principe nei suoi versi e d’inviargli alcune lettere, con palese dimostrazione di stima e di ammirazione. Ad un esame più approfondito dei madrigali potrà risultare confermato che fra i grandi musicisti del tempo Gesualdo sia stato quello che meno ha subito – nel senso di un’ideale affinità di spiriti – il fascino poetico del Tasso. Forse la natura del suo stesso temperamento, che nella musica sembra trovare sfogo ad una certa estrosa ed irrequieta mobilità espressiva, conduceva Gesualdo ad un’autonomia creativa in cui l’originaria sollecitazione del testo poetico è completamente superata, se non addirittura travolta.

Ed infine, ecco uno degli incontri di più profonda congenialità artistica che si possa studiare nella perenne vicenda dei rapporti fra la poesia e la musica: Tasso e Monteverdi, di cui ci siamo altra volta ampiamente occupati (Tasso e Monteverdi, cit.). Due nomi che in sé riassumono alcuni essenziali modi espressivi dai quali non si può prescindere nella storia del gusto e della sensibilità artistica della civiltà europea. Qui basterà ricordare che il Monteverdi guardò al Tasso durante tutta la sua lunga carriera di compositore: si direbbe anzi che a lui sentì l’obbligo di tornare ogni volta che avvertiva farsi più ampio e profondo il suo dono creativo. E chissà che, in piena coscienza, non abbia allora prescelto l’opera che più d’ogni altra lo poneva in uno stato propizio di felicità creativa. La poesia venne scrutata nel suo «affetto» ed i versi non vennero accolti nella loro suggestione melodica, sibbene – in questo caso, proprio come voleva il Tasso – per la forza del sentimento legato all’immagine. L’intensità e lo splendore delle figurazioni poetiche riprenderanno nuovo significato perché desteranno nel compositore una risonanza umana e non soltanto illusorie corrispondenze di simbolismi sonori.

Mi limito a ricordare che l’ispirazione monteverdiana ha il suo primo, sicuro avvio con gli ultimi due madrigali del primo libro (1587), si svolge e si amplia nel secondo libro (1590), tocca il suo vertice nel terzo (1592) con le stanze 58, 59 e 63 tratte dal canto XVI, quello dell’abbandono di Armida, seguite dalle stanze 77, 78, 79 del canto XII, nelle quali Tancredi effonde il lamento per la fatale morte di Clorinda da lui stesso provocata, ed infine nell’ottavo libro con lo stupendo e celeberrimo madrigale drammatico sul «Combattimento di Tancredi e Clorinda», su stanze ancora tratte dal canto XII. È ancora dubbia l’ascrizione al Monteverdi di un «Lamento d’Erminia»; alcune notizie indicherebbero in un’opera perduta, l’«Armida» (1627) l’omaggio più ampio che il Monteverdi avrebbe tributato al genio del Tasso.

Intorno a questi grandi fanno corona innumerevoli compositori che, in modo così mirabile, danno testimonianza del fascino poetico del Tasso. Ai musicisti già elencati dal Solerti altri ancora una sistematica ricerca bibliografica potrà aggiungere. Dallo studio di essi nuove precisazioni arricchiranno la conoscenza della fortuna del Tasso e nuovi risultati meglio chiariranno gli aspetti del linguaggio musicale della polifonia profana, in cui domina per complessità e sottigliezza di composizione il madrigale. Lo svolgimento della carriera poetica del Tasso è contemporaneo a quello dell’arte madrigalistica, giunta ormai alla pienezza delle sue possibilità espressive: anzi, già insidiata da una maturità di esperienze che apre il varco ad artificiosità stanche, a sottigliezze ora suggerite dal senso, ora guidate dall’intelletto. Sono talvolta esperienze racchiuse in uno stretto giro tecnico, utili o vane secondo il genio e il gusto dell’artista che a quelle s’induce: talora perdendosi in un arido mestiere, talora prendendo via via coscienza della propria verità d’ispirazione. Avvicinandosi in età quasi acerba alla poesia tassesca, su tutte le esperienze da questa suggerite si solleva, con grandi colpi d’ala, la musica di Claudio Monteverdi, ormai riconosciuto come l’interprete più alto e più degno del «suo divino» Tasso.

In attesa delle nuove ricerche è intanto da ricordare, come uno dei frutti nati dalla celebrazione che Ferrara ha testé compiuto per il quarto centenario della nascita del poeta che le vicende belliche impedirono di tenere dieci anni prima, la pubblicazione di dodici madrigali di vari autori («Dodici madrigali di scuola ferrarese su testi di Torquato Tasso» a cura di Riccardo Nielsen. Centro di Studi Musicali «G. Frescobaldi» del Comune di Ferrara. Edizioni Bongiovanni, Bologna, 1954). Di essi il più noto è Luzzasco Luzzaschi, che abbiamo visto citato dal Tasso medesimo; ma accanto a lui si fanno apprezzare due altri meno noti musicisti ferraresi, Lodovico Agostini e Filippo Nicoletti, mentre Parolo Virchi, forse di origine bresciana, idealmente come compositore e praticamente come organista e musico del duca Alfonso II partecipa all’atmosfera musicale di Ferrara.

Col «Combattimento di Tancredi e Clorinda» dell’ottavo libro dei Madrigali del Monteverdi già si è ricordata una composizione in cui la polifonia contrappuntistica cede il passo alla monodia accompagnata. Anche nel nuovo stile continua il fascino della poesia tassesca, come danno testimonianza «Le lagrime d’Erminia in Stile recitativo» di Biagio Marini (1623).

Ed infine tra gli esempi più illustri di intonazioni dirette dei testi poetici del Tasso sono quelli di Domenico Mazzocchi, insigne musicista della scuola romana della prima metà del Seicento. Le due composizioni, entrambe tratte dalla «Gerusalemme liberata», furono pubblicate in opere diverse nello stesso anno, 1638. La prima, il lamento di Armida «Chiudeste i lumi Armida» (canto XVI, st. 61), è nei «Madrigali a cinque voci ed altri varii Concerti»; la seconda, in forma che già viene definita di cantata drammatica è il «dialogo» a quattro voci «Olindo e Sofronia» tratto dal secondo canto, in «Dialoghi e Sonetti». In questa è da notare che la parte narrativa, che ha la funzione dello «storico» nell’oratorio, è indicata col nome di Tasso: ingenua, ma commovente, questa presenza fra le sue creature del poeta cui il musicista affida, come ad una reale voce di narratore, il prestigio inventivo del racconto. Dopo il canto che il Monteverdi stesso diceva «di genere non più visto né udito», siamo alle ultime vibrazioni in musica delle autentiche parole del poeta.

Questo si può chiamare il «primo tempo» della suggestione esercitata dal Tasso sui musicisti: le autentiche immagini e cadenze poetiche suscitano echi e risonanze in immagini e cadenze musicali, sull’ideale tramite di una congenialità di senso, di sentimento e di fantasia. In questo primo tempo i legami di gusto e di costume hanno una concreta realtà storica, nella quale i risultati musicali di compositori tra loro dissimili pur s’accordano come in un’aura di cui possiamo respirare il sottile profumo ogni volta che ci riesce di cogliere il rivo segreto che dalla poesia originaria misteriosamente feconda e nutre la nuova musica, che da quella deriva. Ma col passar delle età, col volgersi dei musicisti ad altri ritmi e cadenze poetiche sorti da atteggiamenti diversi di vita ecco idealmente succedere un «secondo tempo» della suggestione non più direttamente esercitata dall’immagine poetica; col propagarsi e radicarsi nel patrimonio poetico culturale ed umano dell’opera tassesca, l’interesse dei posteri s’accentra nelle figure e negli episodi di cui esse sono protagoniste. La musica non nasce più direttamente sulla parola poetica, ma s’innesta sul mito che il personaggio per così dire riassume e concentra nel ricordo ormai divenuto popolare: così le «Rime» non vengono più direttamente intonate e la grande fonte rimane ora la «Gerusalemme liberata».

Ed allora comincia la riduzione melodrammatica di quel mondo poetico: da esso si staccano i personaggi, si isolano le vicende nella nuova unità del «libretto». La poesia non eserciterà più le sue suggestioni come voce diretta e canto immediato, si sperderà via via come un’eco che sempre più fievole s’allontana. Ed in queste riduzioni e ripetizioni e contraffazioni l’alta lezione del Tasso sovente scadrà in una generica risonanza di motivi che un tempo furono poetici ed a volta a volta s’imporranno per quella ch’essi pretendono di derivare dal mondo tassesco: ora sensuali o cerebrali, ora idillici od eroici, ora intimi o spettacolari.

Quell’elemento melodrammatico ch’era già presente nel Tasso, si farà duramente scoperto nel teatro musicale quando personaggi e situazioni saranno pretesti di una scenografia non soltanto prospettiva e visiva, ma quasi arazzo sonoro servirà da sfondo al gestire vacuo, al declamare astratto, al cantare schematico – che resta tale, anzi più inerte si palesa quando i virtuosistici ornamenti vocali vorrebbero illudere con una loro effusiva mobilità. Rimarrà questa eco tassesca nel senso e nel concetto, antitesi ora divergenti alle direzioni opposte, ora industriosamente ricondotte e ricomposte nelle mistioni artificiose del gusto barocco. Cade dalla memoria quello che seppe compiere il Monteverdi e le musiche del Seicento giungeranno ad una loro autonomia più sonora che poetica, disperdendosi nella favola mitologica e in quella pseudo-storica, irreale ed artificioso gioco d’immaginazione entrambe.

Si staccano dunque dal maggiore poema, come personaggi che ormai vivono nell’alone o nel ricordo della fantasia tassesca, anche se via via impoveriti nei sommari contorni che li hanno fatti diventare popolari, le figure femminili sopra tutto: quelle Armide ed Erminie e Clorinde che, specialmente la prima, danno luogo ad una serie di opere variamente atteggiate dalla fantasia musicale dei loro autori, ma che sempre si richiamano all’intuizione originaria del poeta. E fra le figure maschili Rinaldo e Tancredi, il primo con un maggior numero di riduzioni e modificazioni melodrammatiche; ed è singolare che il secondo, nell’opera giovanile del Rossini pur derivando dal ben diverso testo di un Voltaire, diventi «idillico e amoroso ed elegiaco» per la persistente, quasi involontaria suggestione in cui, come dice il Bacchelli «influisce semmai pure la leggenda popolare e l’immagine romantica di Torquato, quasi favola della favola poetica» (Riccardo Bacchelli, «Rossini», Torino, 1941, p. 54).

In questo secondo tempo si saggia, per così dire, il valore affettivo e simbolico che certi poeti, e primo fra loro il Tasso, o meglio alcuni loro momenti poetici assumono non soltanto nel gusto letterario, ma, più largamente, nella vita dell’umanità: come se le generazioni successive, per il mutare del gusto non sempre possano ritrovarsi nella puntuale adesione al valore poetico, ma in una più generica disposizione di simpatia. Tali momenti poetici non vengono soltanto gustati nel ritorno alla loro originaria e precisa figurazione fantastica, ma variati, svolti ed inseguiti, come simbolo tra poetico ed umano, sino alle più lontane ed ormai deformate rifrazioni.

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